The Survival of Kindness, di Rolf de Heer

Un fantasy distopico senz’anima con tante suggestioni che si risolvono nel nulla. Incomprensibilmente punitivo, sembra già finito prima di cominciare. Concorso.

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L’apocalisse nel deserto. C’è ancora un’anima imprigionata in un corpo nel cinema di Rolf de Heer. In Bad Boy Bubby, il film che l’ha lanciato a livello internazionale, c’era un bambino imprigionato nel corpo di un trentacinquenne. In The Survival of Kidness c’è invece lo spirito libero di una donna abbandonata in una gabbia nel rimorchio di una roulotte dai suoi carcerieri. Lei però non è ancora pronta a morire. Si libera e inizia a vagare in un paesaggio sterminato, dalle montagne a città abbandonate attraversando pestilenze e persecuzioni. E nel suo viaggio scopre che la libertà non era quella che credeva.

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A dieci anni dal suo ultimo film, Charlie’s Country, il cineasta australiano firma un fantasy distopico senz’anima, che s’incanta sui paesaggi e seziona il corpo della protagonista (Mwajemi Hussein) per trasformarla nella materia informe del suo racconto. Anche nei campi-lunghi resta bloccata in una dimensione claustrofobica accentuata dai dettagli sulle formiche, le mosche sul viso, cadaveri impiccati. E non mostra  un minimo di apertura neanche con l’incontro con i due ragazzini. C’è un mondo spietato lì fuori: uomini che girano con le maschere che fanno di tutto pur di non rinunciare ai loro privilegi.

La regia di de Heer è spesso sottolineata in un film che invece avrebbe dovuto, nello spirito di Herzog, vagare e volare nello spazio. La dimostrazione è proprio, per esempio, il modo come inquadra la protagonista che si arrampica sulla roccia. Uno sguardo lontano, mai condiviso, solo di un osservatore che maniene la distanza sempre in una comfort zone. Il cineasta riprende il discorso sulle minoranze etniche in un mondo popolato dall’uomo bianco (l’aborigeno protagonista di The Tracker), ci mescola la presunta purezza del cinema che vive solo di immagini (i dialoghi infatti sono pochissimi) dove mira direttamente all’estetica del muto come in Dr. Plonk. Tante suggestioni che si risolvono nel nulla in un film incomprensibilmente punitivo che sembra già finito prima di cominciare e che (ci) rinchiude, come la protagonista, in una gabbia per controllarci meglio.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
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