The Trainer, di Tony Kaye

Il regista firma il suo film più coraggioso. A mancare è però il coraggio di essere “nel tempo”. Ed il rischio è che tutto si risolva in una gustosa performance. RoFF19. Progressive Cinema.

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Ancora un ritratto umanista per Tony Kaye. Come il naziskin sulla via della redenzione di American History X e l’insegnante in crisi esistenziale di Detachement – Il distacco. Ma il cinema cambia, va veloce e Tony Kaye torna in sala dopo tredici anni. Un’eternità in termini di stimoli, linguaggi, sintassi. E forse se ne rende conto anche lui che, a poco più di settant’anni, per The Trainer sceglie di affidarsi al suo stesso attore protagonista, Vito Schnabel, produttore e sceneggiatore di questa storia su un personal trainer che vuole coronare il suo sogno di inventore e businessman vendendo, attraverso un’importante rete via cavo, quello che dice essere un fondamentale casco per l’attività fisica. Prima, però, dovrà cercare i contatti giusti, farsi notare, attirare l’attenzione sul prodotto e, soprattutto, farsi prendere sul serio da chi lo considera solo un mitomane “drogato” dalla voglia di celebrità a tutti i costi

È un passo indietro di grande onestà, quello di Kaye, coerente con un film che, forse complice anche una regia più libera, estremizza la solita formula del pedinamento ossessivo del protagonista per raccontare lui ed il suo mondo come elementi centrali di quella civiltà dell’immagine di cui il ragazzo vorrebbe far parte. The Trainer è in effetti il film più coraggioso di Tony Kaye, che qui abbandona il suo solito stile sobrio e spinge l’acceleratore sugli stilemi tipici dell’MTV movie, videoclipparo, eccessivo, ricchissimo di giochi di montaggio, interferenze visive, dettagli di un mondo di cartapesta in cui Jack è sballottato come un detrito. Certo rimane da discutere quest’approccio affascinante e ostinatamente fuori dal tempo, con Tony Kaye incastrato in stilemi (e immaginari divistici, da Lenny Kravitz a Paris Hilton) vecchi di almeno vent’anni e con Schnabel intrappolato in uno strano mondo pre-internet, convintamente teledipendente, quasi lasciasse intendere di essere già formato, di aver preso già la sua posizione in materia di civiltà dell’immagine ben prima dell’infosfera e dei modi in cui ha mutato e potenziato il racconto di sé ed i valori di quel self made man che ambisce ad essere Jack.

The Trainer pare per questo prendere corpo in una sorta di area protetta, quasi fosse una performance a quattro mani, tra video arte e body art, che ragiona di certi baratri della fama, di certi compromessi, del valore relativo della verità a contatto con il mondo della libera imprenditoria.

Così a mancare è una certa urgenza nei discorsi, che sono tutti lì, addirittura intuiti da certi dettagli dello script, che a tratti pare sfiorare certi formati spuri e apertamente legati alla internet culture ma anche certi discorsi su una mascolinità sempre più fragile che rimangono però, tutti sulla superficie. Ma forse il limite è tutto nello sguardo di Kaye, forse è tutto nella fisiologica distanza generazionale tra lui ed il protagonista del suo film, che lo porta a intuire ma non ad afferrare davvero le eventuali criticità profonde di Jack, seguito e raccontato in modo affettuoso e forse condiscendente ma mai davvero severo, considerato alla stregua di un freak dal cuore d’oro e dalla parlantina sciolta, ben lontano, ad esempio dal protagonista di American History X che evidentemente chiedeva uno sforzo militante.

Certo i problemi profondi, sopiti, di Jack rimangono comunque lì, anche se mai davvero raccontati, approcciati in modo critico, smontati. È probabilmente una scelta a suo modo funzionale, utile soprattutto all’esplosione psicotica dell’ultimo atto, ma anche quando Vito/Jack sceglie di affrontare i suoi lati oscuri nel bel monologo finale, sembra soprattutto una scelta dello sceneggiatore, una sua urgenza non sostenuta da una vera costruzione precedente.

Tony Kaye è già da altre parti. Nella colonna sonora maestosa che sostiene le parole di Schnabel, nella lunga coda finale, che forse regala a Jack ciò che ha sempre sognato, attenzione, affetto, ma lo fa in modo semplice, diretto, con dei saluti, con dei complimenti da parte di quello showbiz che ha sempre visto da lontano. Per lui basterà, sembra dire The Trainer, anche se, forse, i suoi problemi rimarranno lì anche oltre i titoli di coda.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
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Il voto dei lettori
4.75 (4 voti)
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