The United States of America, di James Benning

Il giro d’America con un’inquadratura fissa di due minuti per ognuno degli stati dell’Unione. Un vero e proprio catalogo di immagini di spazi anonimi. Al Doclisboa l’ultimo film di James Benning

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Uno dei primi film di James Benning, del 1975, già si intitolava The United States of America. Si trattava di un corto realizzato con Bette Gordon, interamente girato con una macchina da presa montata sul sedile posteriore dell’auto su cui i due viaggiavano da una costa all’altra del paese.

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Ora Benning torna ad attraversare l’America, ma in un modo più mentale, ai limiti dell’astratto. Un’inquadratura fissa di due minuti per ognuno degli stati dell’Unione. Un vero e proprio catalogo, disposto secondo il più classico ordine alfabetico, dall’Alabama al Wyoming. Ma si tratta per lo più di luoghi pochi conosciuti, da Heron Bay a Kelly, messi in fila in una composta sequenza di immagini di spazi anonimi, non immediatamente identificativi. Un frammento di paesaggio vagamente evocativo, dalle palme delle Hawaii alle montagne innevate del Vermont. Oppure lo scorcio di uno scenario urbano o industriale desolato, un sottopasso stradale, un incrocio di periferia, una raffineria, un impianto di estrazione petrolifera… O addirittura un dettaglio qualsiasi, un cielo di nuvole, una bandiera che sventola, un’abitazione, la prospettiva limitata di un circuito su cui sfrecciano auto da corsa. Fino a veri e propri squarci di nulla, un recinto che transenna un campo, una pompa di benzina abbandonata, un binario smarrito nella prateria, attraversato da un treno merci che scandisce la durata dell’inquadratura. L’elemento umano è quasi completamente assente. E se c’è, è accessorio, è solo uno fra i tanti tasselli che compongono la realtà stratificata dei luoghi. Come la nebbia, la pioggia, il vento, gli animali, le macchine. E così, pure ciò che sentiamo, le note di una canzone che provengono da chissà quale radio o i frammenti di quei discorsi di repertorio, non valgono tanto per ciò che dicono o che evocano. Arrivano piuttosto da un fuoricampo sconosciuto, da un altro tempo e da un altro spazio, per confondersi in un tappeto sonoro indistinto. Mescolandosi con gli altri rumori che, ogni tanto, punteggiano l’inquadratura, il muggito di una vacca, il rombo di un aeroplano, di un motore in lontananza…

Tutto si addensa nella scena. Eppure le inquadrature continuano a sembrare incredibilmente “vuote”, tanto insignificanti quanto immobili. Perché, in fondo, le cartoline di Benning non raccontano nulla dei luoghi che incrociano. Sono rappresentazioni geometriche di un dato reale che è solo suggerito, sfiorato. Del resto tutto è affidato al potere dichiarativo dei cartelli che aprono ogni frammento, quasi come in quei vecchi Intervalli della Rai. Noi crediamo di essere lì, perché è Benning a dircelo. Ma poi, con un incredibile colpo di teatro, svela che il film si regge su una finzione, su una serie di location scelte “come se” e combinate in una delle tante esemplificazioni possibili di un’intera nazione. Avrebbe potuto scegliere luoghi diversi, inquadrature differenti, costruire altri rimandi, altre formule di evocazione. Del resto ha sempre lavorato sulla durata e sulla combinazione degli elementi, sulla perlustrazione del tempo e dello spazio. E perciò, anche qui, tutto si sarebbe tenuto in piedi, pur con forma diversa. A riprova dell’ambiguità dell’immagine, della sua capacità di essere ben altro che il suo contenuto effettivo. Fino al limite di un trompe-l’oeil sublime, uno scorcio di strada newyorchese rubato chissà dove. In questo gioco entra anche la nostra libertà di ricombinare il tutto, di saltare i tasselli, di distrarci, smarrirci nei nostri pensieri, di addormentarci e perdere il tratto di strada tra il Missouri e il Montana. Del resto non si tratta di un viaggio reale. Perché non sognarlo a modo nostro?

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8
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Il voto dei lettori
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