The World to Come, di Mona Fastvold

L’adattamento dell’omonimo libro di Jim Shepard è un’operazione fredda, che rischia di seguire un formulario indie fin troppo abusato.

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America 1856. Abigail (Katherine Waterston) e Dyer (Casey Affleck) sono una coppia di fattori che hanno da poco perso la figlioletta per una difterite. La donna scrive un diario in cui racconta il suo dolore e le sue grigie giornate, trascorse nel silenzio e nella solitudine. Finché un giorno arrivano nuovi vicini: Tallie (Vanessa Kirby) e Finney (Christopher Abbott). Con Tallie torna la luce. Le due donne instaurano presto un rapporto speciale. Si confidano, si sfiorano, immaginano quello che nessuna di loro sembrerebbe avere il coraggio di dire. Poi arriva l’amore e gli incontri clandestini. E poi, inevitabilmente, la paura del giudizio, l’impossibilità di vivere liberamente il loro sentimento e la gabbia asfissiante della vita coniugale. L’epilogo sarà tragico.

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Sei anni dopo il suo primo film da regista (Sleepwalker), la norvegese Mona Fastvold torna dietro la macchina da presa con un’opera che vede tra i produttori lo stesso Affleck e il regista compagno Brady Corbet, con cui ha scritto L’infanzia di un capo e Vox Lux. Quattro attori, il paesaggio innevato dello Stato di New York, due fattorie. L’attenzione filologica a location, illuminazione, costumi e utensili è quasi maniacale. Ed è forse l’elemento materico più affascinante di un’opera che all’inizio sembra ricostruire gli odori e i pensieri di un’epoca lontana, come se assistessimo a un viaggio nel passato in tempo reale. È l’impianto su cui però si sviluppa un’operazione tutta di testa, che presto sottomette le sue potenzialità percettive alla voice over di Abigail che legge il diario.

Siamo lontani dall’emotività implosa e straziante di Ritratto di una giovane in fiamme, dove il silenzio, lo spazio e i corpi riuscivano a creare una tensione quasi insostenibile per poi trasformarsi in un film sullo sguardo e sulla memoria. Fastvold alla fine rimanda indietro il tempo con rapidissimi frammenti di flashback e di pagine del diario. Sa usare la tecnica, ma ciò non toglie che il suo film fatichi a uscire da una strana catatonia. Come fosse cristallizzato in un impianto che è già di maniera.

Nonostante la fotografia naturalista di André Chemetoff e la partitura sonora del fuoriclasse Leslie Schatz qui abbiamo soprattutto un cinema scritto, con la parola che domina l’immagine. Forse la cineasta americana ha avuto troppo rispetto per l’omonimo libro di Jim Shepard (co-sceneggiatore insieme a Ron Hansen) dedicato a queste due eroine LGBT ante-litteram e ha finito per imprigionare la storia in una griglia formale monocorde. Alla fine The World to Come ci sembra la proposta di un cinema “precisino”, ma soffocato dalla sua sovrastruttura. Insegue il testo invece di costruirlo da sé.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (2 voti)
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