This is not a Burial, it’s a Resurrection, di Lemohang Mosese

Dimensioni terrene, oniriche e ancestrali si fondono nel terzo film dello scrittore e regista del Lesotho, che candida per la prima volta un film agli Oscar. Dal Tertio Millennio Film Festival

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Il Lesotho è una enclave nell’entroterra dell’Africa meridionale, un territorio senza sbocchi sul mare, costituito prevalentemente da catene montuose, reti di fiumi e ampie vallate.
Un luogo di cieli aperti e paesaggi rurali che sembra sospeso nel tempo – abitato da popoli devoti agli antenati, che coesistono in simbiosi con la natura, almeno fin quando non vengono destabilizzati dall’arrivo dell’industrializzazione – fa da sfondo alla storia di Mantoa (Mary Twala), una vedova anziana che si ribella a chiunque voglia sottrarle l’ultimo desiderio: la possibilità di essere sepolta insieme alla sua famiglia.
Dimensioni terrene, oniriche e ancestrali si fondono in This is not a Burial, it’s a Resurrection, il terzo film dello scrittore e regista Lemohang Jeremiah Mosese, che sceglie il Lesotho, la sua terra natale, come ambientazione per raccontare una storia di legami identitari e spirituali, tra territorio, individuo e comunità, costruendo una riflessione sull’equilibrio ecologico di un paese incontaminato, spezzato dall’inevitabile marcia del capitalismo.
Sostenuto e realizzato nell’ambito della 9a edizione di Biennale College – Cinema, il film riceve un premio speciale per il suo “visionary filmmaking” al Sundance Film Festival e una candidatura agli Oscars 2021 per il Lesotho, che per la prima volta nella storia concorre nella categoria Miglior film Internazionale; oggi è disponibile su Mymovies, in streaming per il Tertio Millennio Film Fest.
This is not a Burial, it’s a Resurrection inizia come un Mito che viene tramandato oralmente: la camera compie una panoramica circolare all’interno di uno shebeen fino a inquadrare un narratore misterioso (Jerry Mofokeng) che suona la Lesiba (uno strumento tradizionale del Lesotho) mentre riflette sul destino di Nazaretha, la regione montana che i popoli indigeni chiamano anche “valle delle lacrime”.
La leggenda narra che porgendo un orecchio a terra si sentono ancora i lamenti di chi attraversò quelle montagne durante il periodo della peste nera. Un luogo di passaggio per gli abitanti dei villaggi che conducevano i malati verso i centri di assistenza della capitale, il più delle volte senza raggiungere in tempo la destinazione. I malati morivano durante il viaggio e chi li trasportava decideva di seppellirli lì, lungo la valle, per poi stabilirsi accanto alle loro tombe. È così che nacque il villaggio dov’è cresciuta Mantoa.

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Dagli ambienti offuscati del locale dove il narratore evoca il folklore indigeno si passa alle riprese panoramiche sui paesaggi montani di Nazaretha, filtrati attraverso le luci e i colori sublimi della fotografia di Pierre de Villiers.
È il giorno del giubileo quando Mantoa viene a sapere che l’ultimo dei suoi figli non farà mai ritorno dalle miniere e inizia a prendere accordi per morire lei stessa, chiedendo di essere sepolta insieme al resto della famiglia. Ma i suoi piani vengono subito interrotti dall’annuncio di un’altra notizia: la comunità riceve dal governo un ordine di reinsediamento per la costruzione di una nuova diga che sommergerà l’intero villaggio, compresi i cimiteri dove riposano i loro antenati.
Questa non è una marcia della morte, questa è una marcia dei vivi e dei morti ripete il narratore senza nome.
La perdita diventa la forza motrice di Mantoa, che comincia a risvegliarsi dal dolore per compiere un’ultima protesta terrena, ma senza mai rinunciare all’abito nero del lutto.
Insieme a lei cambiano anche i ritmi musicali e le atmosfere, che diventano il riflesso della sua percezione. Mentre Mantoa, sola tra le mura della sua capanna, raggiunge stati di coscienza alterati, la mdp imprime sullo schermo le bellissime composizioni di Mosese, simili a quadri rinascimentali.

Con un approccio che varia da quello documentaristico (debitore dello stile di Pedro Costa) alla performance d’arte, al racconto classico, Mosese riesce a comunicare l’importanza di preservare questa simbiosi ancestrale che c’è tra natura, corpo e psiche umana, raccontandola soprattutto attraverso le immagini.
Figlio mio, quello che gli uomini chiamano progresso spesso è quando puntano il dito contro la natura e proclamano la vittoria su di essa – raccontava un padre a suo figlio, quando partecipò alla deforestazione di Boliba per costruirci una strada.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.7

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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