Time, di Garrett Bradley

Più interessato a riflettere sul senso del tempo che passa che a comprendere i retroscena di un crimine. Ogni sequenza è un momento della lotta della donna contro la dissoluzione del suo passato

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Sibil Fox Richardson, attivista per i diritti dei neri, sta contattando l’ufficio del giudice della Louisiana per capire se suo marito, Robert Richardson, avrà la libertà condizionale, ponendo fine ad una condanna a sessant’anni di carcere non commisurata al crimine commesso dall’uomo vent’anni prima. Sibil rimane a lungo in attesa e alla fine non riceve le novità sperate. Durante tutta la telefonata noi siamo lì con lei, in ascolto, e percepiamo fisicamente il tempo che scorre inesorabile.

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Il centro di Time è tutto qui, nella scelta di campo del regista Garrett Bradley, più interessato a riflettere sul senso del tempo che passa che a comprendere i retroscena di un crimine. Potremmo dire che il Time evocato dal titolo è, letteralmente, il Tempo, l’entità che è, forse, il vero nemico di Robert e Sibil. La donna lo dice chiaramente: il vero crimine è aver permesso che un uomo passasse così tanto tempo lontano dalla sua famiglia.

Bradley legge il tempo come una forza che cancella il presente per lasciare spazio al Nuovo. A Sibil non rimane altro, dunque, che tentare di preservare il Reale restituendo al marito uno spazio che conservi tutte le sensazioni e i sentimenti di quel passato che Robert non ha potuto vivere. Time diventa dunque un intelligente progetto che tematizza l’innato desiderio di preservare i ricordi e testimoniare la propria storia di cui Sibil è straordinaria rappresentante.

Ogni sequenza del documentario è un momento della lotta della donna contro la dissoluzione del suo passato, un confronto che va a toccare anche il dibattito tra analogico e digitale. L’analogico è il passato, la concretezza, la tangibilità, il digitale è il presente, l’intangibile. Simbolico che il film si regga sugli home movies girati da Sibil, attraverso cui la donna ha catturato un passato in cui potrà rifugiarsi Robert. Lentamente appare però chiaro che Sibil sta tentando di preservare anche la cultura black a cui appartiene, che la donna evoca e archivia costantemente.

Sibil attraversa infatti secoli di immaginario collettivo black, interagendo liberamente con un flusso di  spunti che rilancia per farne nuovi strumenti utili alla sua testimonianza.

Il racconto dei Richardson ha un lieto fine ma viene da chiedersi se la donna sia riuscita ad opporsi davvero all’azione del tempo. La diegesi non dà una risposta in questo senso ma dissemina indizi che svelano quanto i tentativi di Sibil siano state inutili. Significativo è osservare i modi in cui il presente irrompe nel racconto della donna: i suoi figli sono ormai adulti, l’analogico degli home movies ha lasciato il posto al digitale, Robert è invecchiato. Forse il cinema può però servire alla causa. Basta riavvolgere il nastro, come accade nelle ultime sequenze, ricostruendo l’eterno passato cercato da Sibil ma probabilmente il senso di tutto è piuttosto abbracciare la velocità inesorabile del presente non rinunciando a creare nuovi ricordi che reggano al tempo, osservando da lontano il passato ma senza rifugiarsi in esso.

Time
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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