Tina, di Dan Lindsay e T.J. Martin

Presentato a Berlino e a fine mese su HBO Max, lo straordinario doc su Tina Turner riesce a catturare l’energia incontenibile della performer e insieme a farsi metafora di women empowerment

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E’ indubbio che negli anni recenti il mondo del documentario musicale abbia trovato nuova linfa nel filone legato alle star abusate, più che agli abusi delle star che ne erano invece il fulcro fino a poco fa: se operazioni più o meno ambigue come l’esecrabile Leaving Neverland o Surviving R Kelly e il recente Framing Britney Spears abdicano da subito alla componente artistica dimenticandosi senza remore della musica, un titolo come il Whitney di Kevin Macdonald riusciva a tenere insieme entrambe le anime, la morbosa ricerca della rievocazione dei soprusi in famiglia e la parabola pop dell’icona leggendaria. Dallo stesso team di quel doc, ma rinunciando all’approccio da flusso “kapadiano” imbastito da Macdonald, Tina di Lindsay e Martin dichiara di voler rappresentare la parola definitiva sulla storia di Tina Turner (insieme al musical biografico che nel 2019 ha debuttato a Broadway).
Ma non perde un attimo prima di lanciarsi nella questione degli abusi subiti nei lunghi anni al fianco di Ike Turner, raccontati per la prima volta dalla donna in un’intervista a People nel 1981, la cui registrazione funge da filo conduttore delle immagini, tra repertorio (puntualmente irresistibile, da esibizioni televisive o concerti lungo i decenni) e nuovi interventi dei biografi di Tina, di amiche come Oprah Winfrey e Angela Bassett (che nel 1993 portò la storia delle terribili violenze di Ike sulla consorte ad un pubblico ancora più vasto con il film What’s love got to do whit it), di musicisti e produttori che hanno collaborato con la cantante, e della protagonista stessa incontrata per l’occasione nella sua casa in Svizzera. Il coraggio, sorprendente per l’epoca e forse ancora oggi, delle rivelazioni contenute in quella intervista scandisce il ritratto di questa donna portentosa per tutta la prima metà del film, tra i successi con Ike Turner come Proud Mary o la prima hit grazie a Phil Spector (River Deep Mountain High), fino alla decisione di sfuggire definitivamente alle prevaricazioni del marito, maturata grazie all’avvicinamento al buddismo.

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Il documentario ha la bella idea di rivisitare i luoghi della vita di Tina Turner attraverso riprese che vagano tra le stanze vuote delle abitazioni in cui ha vissuto, dalla “reggia” abbandonata tra le cui mura si consumava l’incubo con Ike e i quattro figli, e indietro fino alla casa fuori Memphis in cui i genitori vivevano lavorando nei campi di cotone. Una storia che ripercorre i confini dell’epica black (l’esordio come corista in chiesa) per raccontare come Tina sia stata forse la prima ad espanderne gli stilemi alla dimensione-stadio (“volevo essere la prima donna nera a riempire gli stessi posti degli Stones”), un riferimento per le performer di oggi che ne hanno mutuato la misura spettacolare ed extra-large dei live e soprattutto le movenze primordiali, esplosivamente sensuali e fisiche, delle coreografie.


La scelta di lasciare tutte le royalties dei pezzi realizzati in coppia ad Ike al momento della separazione, per potersi tenere in cambio il nome d’arte Tina Turner, rovescia l’imposizione patriarcale con cui il chitarrista aveva inventato l’alter ego per la donna, nata Anna Mae Bullock, senza neanche chiederle il permesso di presentarla come consorte in cartellone. Ora la Turner originale è Tina, nella modalità con cui il pubblico europeo l’ha conosciuta negli 80s, quando il suo progetto di virare dal soul al rock la vede trasferirsi a Londra a lavorare ai brani di maggiore successo come appunto What’s love, mentre recita in Mad Max.

Lindsay e Martin sono abbastanza bravi da problematizzare anche questo capitolo dedicato alla rivincita, all’ascesa dopo la caduta, in cui un’audience (sempre più predominantemente bianca…) riempie in centinaia di migliaia Wembley o il Maracanà, o fa ore di fila per poter avere una firma sulla copia dell’autobiografia della performer. Il fantasma, l’ombra di Ike Turner ritorna nelle domande di ogni intervista anche anni dopo il divorzio, in ogni apparizione in tv, alla conferenza stampa del film del 1993 a Venezia: è così che il documentario assume il tono, con cui si chiude forse con un po’ troppa concessione alla glorificazione-in-vita, di metafora motivazionale di women empowerment, di racconto di una liberazione esistenziale e umana prima che artistica, di esempio di forza femminile e di una caparbietà instancabile che non possono che farsi fonte d’ispirazione.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
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