Titane, di Julia Ducournau

La sindrome dell’impostore è della protagonista, del film, dell’autrice, o di questo cinema tutto? Forse è tempo di non ignorare più la placca di titanio posta davanti allo schermo

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There’s a prisoner in this song
But it’s not me
I lied about the prisoner
John Cale

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E se il cinema contemporaneo soffrisse di sindrome dell’impostore? Questo disturbo della personalità, studiato per la prima volta nel 1978, colpisce (perdonate la generalizzazione) le persone di valore convinte di non meritare il loro successo, e di essere arrivate nella loro posizione solo grazie a fattori esterni (ad es. la frase ricorrente di certi commentatori: vincerai la Palma solo perché sei donna e hai fatto un film “femminista”, virgolette per il senso social che si dà di questi tempi al termine). E un impostore è in tutti i sensi l’Alexia/Adrien (Agathe Rousselle, portentosa) protagonista del secondo film di Julia Ducournau, nel suo intrufolarsi all’interno della tragedia privata del comandante dei pompieri Vincent e nell’ambiente cameratesco e testosteronico della sua esagitata squadra di vigili del fuoco. La ragazza è tra l’altro incinta dopo un furioso amplesso con una Cadillac, e nonostante il travestimento maschile sarà in grado di portare comunque scompiglio tra le fila del reggimento (“io per voi sono dio, quindi considerate lui Gesù”, lo introduce d’altronde Vincent, che è convinto d’aver ritrovato il figlio scomparso da bambino), nella sequenza forse più clamorosa dell’intera opera, il sinuoso ballo da pole dancer in piedi sul camion rosso da pompiere, in divisa maschile, che mette in imbarazzo la festa a ritmo di techno per soli uomini sudati, frustrati e palestrati che impazzava in caserma.
L’unico modo per nascondere una gravidanza in questa società è forse dunque fingersi uomo? Bella domanda da porre ad un film che si prende l’azzardo di mettere con ogni evidenza in ridicolo il volto centrale del “cinema d’impegno” francese, Vincent Lindon qui apertamente in imbarazzo: è un assalto consapevole all’icona oppure è ancora una volta la sindrome dell’impostore nei confronti della statura del simbolo (il cinema politico è morto, viva il nuovo cinema politico)? A dare dell’impostore, dell’usurpatrice, a Julia Ducournau è in realtà probabilmente tutta una certa critica legata ai riferimenti interni della storia del medium (quale?), e quindi in questo caso Cronenberg, Carpenter, Tsukamoto… forse è questo sguardo cinefilo ad assomigliare a quello del Vincent del film (“sono io a prendermi cura di te e non il contrario”), che si spara siringhe dopanti per nascondere il peso dell’età: dovrebbe magari accettare il nuovo nato seppur venuto fuori con la colonna vertebrale di materiale sintetico? Troppe domande (forse il vero impostore qui è chi scrive).

È vero, la prima sezione di Titane, quella sulla “carriera” da serial killer di Alexia, segue gli stilemi ultra-stilizzati e a decibel perentori del cosiddetto dream-cinema francese in stile Yann Gonzales, portandolo alle estreme conseguenze anche performative (tra Matthew Barney e il primo Bruce LaBruce, per capirci) – ma siamo sicuri che sia davvero tutto qui, oppure piuttosto queste immagini che fingono filiazioni e passati solo apparenti sono stanche anche di dover puntualmente dare fuoco ai cadaveri di genitori (Bonello!), fan e amanti (la sequenza del’accoppiamento con l’automobile è ad esempio probabilmente la meno potente del film). Basta con le metamorfosi: più che a una trasformazione, Alexia va incontro ad uno svelamento, il suo vero camuffamento non è “di genere” ma è quello da essere umano, progressivamente andrà rivelata la lamiera metallica di cui sono in verità composti questi corpi.
Titane è dunque il manifesto definitivo di una generazione che cerca nuovi stilemi per il proprio antagonismo-filtrato-instagram (siano Noé o Larrain…), voci che hanno sostituito (di nuovo!) al sangue inerte la superficie lucida del titanio pulsante: puoi fingere ancora di non vederla, ma la placca è posta davanti allo schermo, e se da un lato questo anestetizza ogni emozione, dall’altro ci richiede con forza di ricodificare per intero il linguaggio con cui dialoghiamo con le sinapsi ammaccate della materia grigia del cinema che ci resta.

 

Palma d’oro al 74° Festival di Cannes

Titolo originale: id.
Regia: Julia Ducournau
Interpreti: Vincent Lindon, Agathe Rousselle, Garance Marillier, Lais Salameh, Dominique Frot, Myriem Akheddiou
Distribuzione: I Wonder Pictures
Durata: 108′
Origine: Francia, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.3 (20 voti)
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