Tokyo Fist, di Shinya Tsukamoto
Mai come ora il cineasta indaga dall’interno l’organismo “intrinsecamente fallibile” del salaryman, per scandagliare i processi che lo rendono così inadeguato ad affrontare il mondo che lo circonda

Un corpo scarnificato, sembrerebbero suggerirci le azioni autodistruttive dei protagonisti di Tokyo Fist, porta alla luce delle verità insondabili, impossibili da decodificare in assenza del dolore e delle deturpazioni di cui il fisico umano può essere oggetto, una volta subiti dei traumi dirompenti. E il motivo dietro questa asserzione, lo ritroviamo nelle dinamiche socio-culturali su cui si strutturano le relazioni cittadino-stato nel primissimo cinema di Tsukamoto – quindi già a partire da Tetsuo: The Iron Man – nate sotto il segno di una sudditanza irreversibile dell’elemento organico del salaryman (ovvero il suo corpo fatto di carne e sangue) alle componenti inorganiche di cui è composta la “città di cemento” che sovrasta, con il proprio gigantismo architettonico, l’individuo: sempre più oppresso dalle azioni deumanizzanti della megalopoli, a cui il cittadino nipponico, data l’inadeguatezza della sua corporeità da dipendente salariato in piena Lost Decade (1991-2001), non riesce minimamente ad opporsi, a meno che non si contamini con il metallo, in modo da assumere la forma corporea post-umana del cyborg, o non scavi nei reticoli interni del suo stesso organismo, per trovare in esso la formula naturale con cui affrontare (invano) i cambiamenti della società all’indomani dell’esplosione della bolla finanziaria.
Ed è in virtù di questa seconda direttrice, che Tsukamoto articola i percorsi dei protagonisti del suo quarto lungometraggio, dando vita a riflessioni solo apparentemente discordanti da quelle proposte nei precedenti film. Ai tempi di Tokyo Fist, i discorsi avanzati dal maestro nipponico sul corpo e sulla condizione esistenziale del cittadino comune giapponese, si muovono ancora in un’ottica di pura matericità: solo a partire da Vital, ovvero a quasi quindici anni dal termine della bubble economy, le corporeità dei suoi personaggi-vittime perdono di massa, per aprirsi allo spazio dell’anima, della mente (Kotoko), dell’inconscio (la duologia di Nightmare Detective) fino ad arrivare a porsi quale specchio dei peccati bellici della nazione (si pensi alla trilogia antimilitarista culminata con Hokage). Adesso le riflessioni sul corpo sono analoghe a quelle già osservate in Tetsuo II: Body Hammer, di cui però il film in questione non reitera le solite dinamiche metamorfiche che vedono nel cyborg uno strumento con cui trascendere la finitezza della carne, e porre di conseguenza fine alla repressività della metropoli. E la ragione la individuiamo nella volontà del maestro di indagare dall’interno l’organismo “intrinsecamente debole” del salaryman, fino a scandagliarne i processi che lo rendono così inadeguato ad affrontare il mondo che lo circonda e che ne ingabbia la soggettività.
Tsuda (a cui presta il volto lo stesso Tsukamoto) ingloba a tutti gli effetti le caratteristiche iconografiche ed identitarie del classico lavoratore giapponese. La sua vita si dipana all’insegna della ripetitività, tra la sudditanza all’azienda a cui ha delegato la propria personalità e le liturgie domestiche che ne hanno appassito l’attività sentimentale/sessuale con la compagna Hizuru (Kaori Fujii). Anche lei, in linea con il protagonista di Tokyo Fist, è una salarywoman, per cui trascorre le giornate immersa nel tedio della quotidianità e della desensibilizzazione che governa le esistenze delle “anime desolate” della Lost Decade. Tutto cambia quando entra nelle loro vite Kojima (interpretato da Kōji Tsukamoto, il fratello del regista) un boxer in crisi che tenta di ridestare sé stesso e la coppia di protagonisti dallo stato di narcotizzazione emotiva in cui si sono inabissati, risvegliando – a suon di pugni – in Tsuda quelle pulsioni rabbiose che avevano cadenzato la sua gioventù, e che in età adulta sono state cancellate dall’appassimento collettivo che la recessione economica ha generato sul popolo del Sol Levante.
Tutto quel che era stato sepolto nelle profondità dell’animo del trittico di protagonisti, ora è destinato ad emergere in superficie. Traumi, pulsioni, rabbia irrisolta: nulla può adesso rimanere confinato all’interno dei personaggi, proprio perché i loro corpi, sottomessi a percosse e ad attività autodistruttive che li deturpano, non hanno più la possibilità di nascondersi; tanto agli occhi della società, quanto al loro stesso sguardo. E più tali fisici vengono scarnificati, sviscerando all’esterno ogni goccia di sangue che gli scorre(va) nelle vene, più questo trittico di individui-vittime comprendono la fallibilità dei loro organismi di carne ed ossa, prendendo così coscienza della sconfortante condizione esistenziale in cui versano. Se, perciò, nelle opere immediatamente precedenti, Tsukamoto mette sistematicamente in scena gli unici corpi-mutanti in grado di respingere le crisi di un presente-assente (cioè quello dell’uomo-macchina) in Tokyo Fist, al contrario, il regista non sente alcun bisogno di reiterare tali metamorfosi per ribadire le sue invettive polemiche: proprio perché a contare, in questo film, è l’analisi interiore dell’organismo umano, ritenuto appunto inadeguato al confronto con le attività deumanizzanti della metropoli di cemento.
Non è un caso, perciò, che tutti e tre i protagonisti di Tokyo Fist soccombano, in un modo o nell’altro, alla fallibilità dei loro corpi umani. Un fenomeno che si carica qui di connotazioni davvero pulsionali, grazie alla solita capacità del regista di offrire un attacco ai sensi dello spettatore, e di inebriarne il cuore e la mente, presentandogli attraverso l’ipercinetismo del montaggio e dei movimenti di macchina un delirio quasi orgiastico di sangue, morte e (auto)distruzione. In tal senso il maestro, anche astraendosi per un momento dalla presentazione delle metamorfosi mostruose della contemporaneità – e lo rivedremo in Bullet Ballet – non entra in discontinuità con i discorsi da lui avanzati per tutti gli anni Novanta sul corpo del salaryman. Indagato qui in tutta la sua desolante (e sempre materica!) inefficienza.
Titolo originale: TOKYO FIST
Regia: Shinya Tsukamoto
Interpreti: Shinya Tsukamoto, Kaori Fujii, Kōji Tsukamoto, Naomasa Musaka, Koichi Wajima, Tomorowo Taguchi, Nobu Kanaoka, Naoko Takenaka, Kengo Yuzuki, Tokitoshi Shiota, Conchita Matsumoto, Mitome Mayumi, Kiichi Mutô, Yoichi Komatsuzawa, Akiko Hioki
Distribuzione: Cat People Distribuzione
Durata: 87′
Origine: Giappone, 1995