Tokyo Vice, di Michael Mann e J.T. Rodgers

Lontana dalle estetiche del cinema yakuza, la serie propone un discorso diverso, lucido, su cosa significhi indagare il sottobosco di Tokyo dalla prospettiva dello straniero. Impressionante. Su Sky

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Questa città.. non è il cazzo di Missouri!”. Raccontare Tokyo e il sistema di relazioni che ne governano il sottobosco criminale, può dare luogo a traiettorie fuorvianti per chi le osserva dall’esterno, specialmente se approcciate da una prospettiva interna. In nome della fedeltà o della logica rappresentativa, gli autori di Tokyo Vice potevano inciampare nella volontà di ripercorrere i sentieri degli yakuza eiga (gangster movie nipponici) proprio perché, in quanto americani, correvano il rischio (ipotetico) di snaturare una realtà urbana dominata da fenomeni socio-culturali profondamente autoctoni. Ma seguire questa direzione avrebbe portato la serie HBO fuori strada. Non solo perché, in questo modo, c’era la fondata possibilità di disperdere le peculiarità di un sistema così impenetrabile agli occhi di un estraneo, e a cui è possibile accedere solamente mediante un’ottica nipponica (come testimoniato, appunto, da 60 anni di film giapponesi sulla yakuza). Ma soprattutto perché tale illusione di fedeltà avrebbe compromesso il cuore della storia in questione. Che ha nella contaminazione di sguardi, se non proprio nell’incursione in una realtà ignota di uno sguardo “esterno”, la sua unica raison d’être. Alla cui analisi Tokyo Vice rivolge ogni sua attenzione. Sia in termini estetici che narrativi.

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In questo senso, la serie di Michael Mann e J.T. Rodgers si offre sin da subito come riflessione sistematica sullo sguardo del gaijin, di “colui che non è nativo del Giappone”. E lo fa già a partire dalla trasparenza con cui si approccia alla materia narrativa. Adattata dal libro autobiografico del giornalista americano Jake Adelstein, Tokyo Vice racconta il mondo della criminalità nipponica dalla prospettiva dello “straniero”, immerso in una realtà urbana che lo respinge (e al tempo stesso, lo attrae) per la sua stessa diversità etnico-culturale. Jake (Ansel Elgort) è un giovane appassionato dell’investigazione criminale, e desidera gettar luce sulle realtà più oscure e nebulose del sottobosco di Tokyo. Nel 1999 si trasferisce così in Giappone, e diventa il primo giornalista non-nipponico nella storia del Meicho Shimbun, uno dei quotidiani (fittizi) più popolari del paese: è motivato, desideroso di costruirsi una carriera eccellente, e di ritagliarsi un posto di rilievo nell’orizzonte socio-culturale cittadino. Ha in teoria tutte le carte in regola per sondare in prima persona le macchinazioni illegali del territorio. Ma la sua insofferenza dovrà fare i conti con la refrattarietà di un mondo chiuso, immanente, impermeabile al cambiamento. In cui solo il contatto con la difformità di un corpo estraneo, può innescare una vera e propria trasformazione interna.

Ed è qui che la scelta di Tokyo Vice di rifiutare le estetiche e i codici tipici del cinema yakuza, risulta essere lucida e coraggiosa. Al centro della storia non c’è infatti la volontà di documentare in profondità i fenomeni intestini alle famiglie criminali, con tutto ciò che ne consegue in termini di liturgie, costruzioni gerarchiche e influenze territoriali, ma di raccontarle da una prospettiva diversa, lontana dalle connotazioni espressive che il genere yakuza solitamente richiede. Se nella serie non ritroviamo il crudo realismo di Fukasaku, le derive esistenzialiste di Kitano o Mochizuki, oppure la visceralità ultrastilizzata di Miike o Sion Sono, è proprio per la centralità che assume nella narrazione la visione del gaijin. Tanto che il predominio dei canoni della detection, e della sua introspezione di fondo, appartiene molto più ai mondi di Miami Vice o Blackhat che a quelli iper-violenti dei nipponici Last of the Wolves (2021) e A Family. Insomma, al di là di alcune forzature d’intreccio, che rischiano spesso di decentrare il racconto dal suo filone principale, Tokyo Vice mette sempre al centro del suo discorso lo sguardo di un personaggio (e di un cinema) dalla natura diversa. In grado di rompere ogni barriera, e penetrare con fluidità in territori solo all’apparenza incompatibili. Fino ad arrivare a cambiarne i codici di rappresentazione. E legarli così alle necessità scopiche di un testo che ingloba in sé le prospettive, gli orizzonti e i linguaggi più disparati, per poi riposizionarli su un unico, interagente piano. Da cui nascono e si sviluppano tutti i semi della modernità urbana.

Titolo originale: id.
Regia: Michael Mann, Josef Kubota Wladyka, Hikari, Alan Poul
Interpreti: Ansel Elgort, Ken Watanabe, Rinko Kikuchi, Rachel Keller, Hideaki Itō, Show Kasamatsu, Ella Rumpf, Tomohisa Yamashita, Kōsuke Toyohara, Takaki Uda, Kosuke Tanaka, Masato Hagiwara, Shun Sugata, Ayumi Tanida
Distribuzione: Sky, NOW
Durata: (stagione 1) 8 episodi da 54-63′
Origine: USA, Giappone, 2022

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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