Tomb Raider, di Roar Uthaug
Londra tra fattorini in bici e ristoranti indiani, poi Hong Kong, Daniel Wu per il mercato asiatico, Alicia Vikander eroina oltre il gender, isole infestate e tombe da violare. Meglio una partita?
Il vero oggetto magico da ricomporre, come nei celebri puzzle di cui è puntellata l’esperienza videoludica di Tomb Raider, è qui il meccanismo stesso del reboot: al norvegese Roar Uthaug, fattosi le ossa nei videoclip e nei film ad alto budget di casa, viene affidata una missione da platea universale attraverso modalità industriali puramente contemporanee, a partire dall’ambientazione londinese multikulti (fattorini in bici, ristoranti indiani, uffici nelle warehouses…) fino ad arrivare al divo cinese di contorno per sfondare nel mercato asiatico (l’immenso Daniel Wu) e alla ridefinizione puntuale dell’eroina femminile per aderire ai canoni action mascolinizzati post-Furiosa. Lara Croft perde così, come già accaduto nei titoli più recenti per le piattaforme di gaming, le curve da pin-up dell’icona originale e la sensualità sbruffona che Angelina Jolie aveva portato nei primi adattamenti di Simon West (2001) e Jan De Bont (2003), per assumere la nuova carne inquieta di Alicia Vikander.
L’interprete continua in questo modo, e dopo il clamoroso ruolo in Jason Bourne, un percorso interessantissimo come corpo instabile di gender impazzito dentro la Hollywood blockbuster (basterebbe la sequenza nello spogliatoio femminile in apertura a far saltare coordinate e definizioni precise): qui, complici alcune situazioni che ne riecheggiano l’avventura tra una foresta fitta ma illuminata quasi alla Cardiff, ferite autosuturate e prigionieri da salvare in elicottero, in alcuni istanti ti sembra quasi di avere di fronte un giovane Stallone per un Rambo II genderswitched.
Il pubblico di questi prodotti ha mutato notoriamente identità, latitudine, competenze e aspettative, e quindi l’arcade movie non può più permettersi le ingenuità con cui operazioni simili venivano affrontate vent’anni fa: Uthaug lo sa bene e dimostra una certa solidità nella trasposizione del mood da avventura grafica sullo schermo per spettatori smaliziati e mediamente smanettoni, Londra e Hong Kong come livelli tutorial per il training del personaggio (il match iniziale, la corsa clandestina delle bici, l’inseguimento dei piccoli borseggiatori del porto, con la sensazione che Vikander e Uthaug stiano facendo le prove generali per essere arruolati nei Fast & Furious…) e poi le grandi sfide dell’Isola e della tomba sepolta di Himiko.
Nonostante le modalità di ripresa a chiaro omaggio dell’apparato formale del gioco, con la mdp spesso a seguire Lara che corre di spalle o ad accompagnarne le frequentissime cadute verticali nel vuoto, il film fatica a tirare fuori qualche reale guizzo da queste situazioni ma inanella un paio di sequenze con una certa efficacia, prima tra tutte quella sulla carcassa dell’aereo in bilico traballante sull’altura, mutuata di peso dalle tipiche challenge del videogame.
Ricordate i vecchi tempi in cui si diceva “certo il libro era un’altra cosa”? Ecco, lo scambio tra lo sguardo del cinema e l’approccio del gaming è sempre più fitto e i confini non sono mai stati così labili come in quest’epoca, ma la dura verità resta la stessa, per quanto il film possa essere soddisfacente, sconta oggi la terribile condanna di non poter superare i limiti di formato che non lo fanno neanche avvicinare all’esperienza immersiva di farsi una bella partita a, per dire, Rise of the Tomb Raider…
Titolo originale: id.
Regia: Roar Uthaug
Interpreti: Alicia Vikander, Dominic West, Walton Goggins, Daniel Wu, Kristin Scott Thomas, Hannah John-Kamen, Nick Frost, Adrian Collins, Antonio Aakeel, Emily Carey, Maisy De Freitas, Michael Obiora
Origine: USA, 2018
Distribuzione: Warner
Durata: 122′