TORINO 22 – "K street", di Steven Soderbergh (Americana)

Michael Moore e Steven Soderbergh. Chi l'avrebbe detto che un giorno li avremmo potuti collegare? "The connection" (come ripete più volte un'attrice) c'è, seppur labile. Se Moore fa politica attraverso il cinema e manipolando crea un'altra realtà, Soderbergh sperimenta il più tradizionale cinema politico ma innesta il mix fiction-dietro le quinte

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Non è un caso che gl'incrementanti film che toccano la politica in questi ultimi tempi siano, invariabilmente, "under pressure". La politica, si sa, è sempre una pentola a pressione e il proiettore ne innalza ancor più la temperatura. Quest'ultimo lavoro di Soderbergh non fa eccezione nel suo essere apparentemente sotto-tono, quasi distratto nella sua frammentarietà episodico-narrativa, "così lontano così vicino" dal melò misurabile a fahrenheit di Moore con la sua "svagata" spietatezza. Michael Moore e Steven Soderbergh. Chi l'avrebbe detto che un giorno li avremmo potuti collegare? "The connection" (come ripete più volte un'attrice del film) c'è, seppur labile. Se Moore fa politica attraverso il cinema e manipolando crea un'altra realtà, Soderbergh sperimenta il più tradizionale cinema politico ma innesta un mix indagine dietro le quinte e fictionale, generando alcune inquietudini. La prima, quella fondante, è vedere da vicino una realtà, quella delle lobbying statunitensi (gruppi di pressione i cui fili, talvolta, riescono ad ancorarsi alle menti decisionali ospitate da Casa Bianca e Congresso), per molti versi rabbrividente come il notevole, fagocitante horror di Hooper, The toolbox murders, appena passato sugli schermi torinesi. James Carville, consulente democratico che fece schizzare sul trono più potente del mondo Clinton nel '92, e Mary Matlin, assistente di Bush e consulente del vicepresidente Cheney sono i numi tutelari e "veri più del vero" che ci guidano come Caronti consapevoli nel marcio della comunicazione "creativa" ai massimi livelli, Tommy Flannegan (John Slattery) e Maggie Norris (Mary McCormack) i co-protagonisti fictionali che li affiancano, mentre vediamo sfilare davanti allo schermo, capaci di graffiarlo un poco anche con una sola battuta, illustri personalità politiche e altri personaggi. Tutti vorticosamente a mollo nello stesso calderone/girone (infernale). Soderbergh gioca tra realtà e finzione scontornando, con stile sconnesso, un mondo di squali dell'apparenza e dell'inganno che spazza via le pecche del peggiore giornalismo d'assalto con un colpo solo. L'unico percorso rettilineo è nel titolo, K street appunto, nome della strada dove sorgono le principali società di lobbying e l'unica conclusione possibile per darci un po' di (mendace) sollievo è il fallimento dei protagonisti, con gli uffici-scheletro in cui giacciono angosciantemente abbandonati computer portatili, cancelleri, telefoni che non squillano più e sale riunioni dove l'inodore asetticità professional ormai non riesce più a coprire il puzzo dei rimasugli del "festino" d'addio dello staff.

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