TORINO 22 – "Los Muertos", "L'Esquive" e "Mosheng Tiantang", tre film dal Concorso

Il cinema "nuovo" a Torino ancora una volta non si lascia prendere. Schegge impazzite che segnano traiettorie a volte armoniose, a volte nervose, a volte apparentemente calme e piatte. A metà del guado già s'intravedono possibili e future speranze almeno per il cinema…

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Il rapporto tra spazio e tempo, così come se ne fa esperienza viaggiando, ha ancora qualcosa di illusorio e illusionistico, ed è anche per questo che ogni qual volta si torna da un viaggio non si sa mai con certezza se davvero si è stati via. In Los Muertos, dell'argentino Lisandro Alonso, Vargas è in galera per aver ammazzato i suoi fratelli. Viene scarcerato dopo una lunga detenzione. È l'Argentina più profonda e dimenticata quella ripresa dal regista. Ci sono foreste, strade lunghe e desolate, fiumi calmi. Ritrovare la propria figlia, ormai donna, è l'unico viaggio da intraprendere. L'unico obiettivo rimasto in un uomo spogliato da ogni interesse per la vita che si muove seguendo istinti animaleschi come fermarsi lungo il tragitto per mangiare, andare a puttane, squartare una capra. Il cinema è al servizio di Vargas che ne dispone a suo piacimento. Forte, "dettagliato" (lo sbudellamento è ripreso interamente), massimalista: non succede nulla che non sia già presente nella natura e che debba essere semplicemente raccolto o afferrato. Anche l'incipit in un solo piano sequenza e con un gioco di fuoco, tra le radure incontaminate sembra fuori dal tempo ma dentro la storia di un Paese che ha nascosto per troppo tempo i suoi affanni e le sue pene. Nella banlieue parigina invece si vive nel riverbero della modernità ma lontani dai clichè della droga e della violenza efferata. In L'Esquive (La schivata), Abdellatif Kechiche, un gruppo di ragazzi provano a fare teatro. Guidati dalla loro professoressa stanno preparando lo spettacolo di fine anno. Storie adolescenziali che s'intrecciano con il gusto raffinato del primo piano insistito e del movimento nervoso della macchina che mai da la sensazione dello sterile esercizio di stile. Esprimersi ed esporsi è ancora più difficile nel teatro desolante e fatiscente di periferia dove la corazza per sopravvivere non ti permette di uscire dal tuo linguaggio, dai tuoi gesti, dal tuo mondo ghettizzato. Forse però la sorpresa di questa prima parte del Festival viene dalla Cina.

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Spendido, "scorretto", difettato è Mosheng Tiantang (Un paradiso alienato) di Yang Fudong. Il regista in patria è considerato uno dei più importanti artisti d'avanguardia ed ha esposto i suoi quadri in tutto il mondo. Una meditazione poetica: pace, noia, amore e malinconia poco prima che la città in cui vivono i protagonisti venga inghiottita dai capitali globali. Parallelo tra la pittura cinese e le sue armonie con l'inquietudine esistenziale. Scoprire se stessi intersecandosi con l'equilibrio naturale del mondo: costruire il proprio sguardo nell'atto stesso del girare. Il fraseggio visivo si avvolge di una forma di svagatezza che avvicina gradualmente ad una metafisica della storia, in cui il ricordo torna continuamente a vivere. Un pò cinema cinese degli anni '20 (soprattutto per l'uso della colonna sonora) ma anche e soprattutto "New American Cinema" che tanto ricorda quella magica mescolanza di Lionel Rogosin tra casualità, spontaneità, frammentarietà ed impurità espressiva.                 

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