TORINO 23 – "A Werewolf In Amazonia", di Ivan Cardoso (Fuori Concorso)

Il maestro del cinema del terrir, che unisce l'horror con la comicità pura, torna a Torino con un film che ne rappresenta appieno lo spirito artigiano: tra sangue versato e seni al vento, dialoghi surreali e grotteschi inserti musicali, si ride e si applaude, per un cinema sincero e genuino che oggi non esiste quasi più.

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Due anni fa, al Torino Film Festival, Ivan Cardoso presentò al pubblico O Segredo Da Mumia, suo primo lungometraggio di finzione datato 1982, pellicola esilarante che scatenò le risate e gli applausi del pubblico per una proiezione di culto. Due anni dopo, con A Werewolf In Amazonia, alla presenza in sala nientemeno che di John Landis e Joe Dante, la storia si ripete. Cardoso, nato a Rio de Janeiro e allievo di Rogerio Sganzerla, fotograto, produttore, regista e giornalista, ha coniato un sostantivo che ben definisce il suo lavoro: il terrir, un genere che unisce gli stilemi dell'horror alla comicità pura, in cui zombi, vampiri e mummie navigano alternativamente in narrazioni improbabili volte spesso ad omaggiare i grandi maestri e al contempo ad offrire rappresentazioni nuove e personalizzate di miti desunti e abbondantemente già spremuti. Lo stile semplice ma creativo s'incatena sovente ai lidi dell'amatorialità, e il tentativo di ricercatezza d'ambienti e trucchi filmici si apparenta con la recitazione approssimativa di attori che sembrano lì quasi per caso. Allo stesso modo la truculenza di certune situazioni palleggia con la battuta a effetto, con inserti erotici e/o musicali teoricamente impraticabili, per un insieme non catalogabile, da prendere con le molle, che senza avere alte pretese autoriali riesce lo stesso a divertire e a lasciarsi apprezzare. In fondo Cardoso è uno di quei pochi sopravvissuti a ergersi ancora come regista artigiano, che con pochi mezzi (per sua stessa ammissione in Brasile è quasi impossibile girare un film dell'orrore) e tanta fantasia sopperisce alla semplicità del materiale recuperando l'affascinante genuinità dei compianti Rollin, Fulci, D'Amato.

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La storia si ripete, dicevamo, e Werewolf in Amazonia recupera tutti i luoghi comuni della cinematografia licantropa (evidente l'omaggio del regista al lupo mannaro di Landis), infarcendo il banchetto con uno scienziato pazzo che si chiama Dr. Moreau (il quale crea mostri e donne amazzoni nel suo laboratorio), con un grottesco aiutante semi-deforme che pare l'Igor di Frankenstein, con uno studioso di biologia di nome Corman, e con citazioni perfino kubrickiane. Ciò che ne fuoriesce è un altro fulgido esempio di cinema del terrir, in cui a sangue versato e seni (abbondantemente) al vento si alternano dialoghi esilaranti e inserti musicali a dir poco surreali, tra luoghi fascinosi della foresta amazzonica e ambienti (palesemente) ricostruiti in studio. Così, tra un brivido e una risata, si attua la poetica di Cardoso, esempio di vera passione cinefila messa in gioco da un uomo di cinquant'anni che vive il suo lavoro con l'entusiasmo di un ragazzino, e che ci crede, ci crede davvero.

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