TORINO 23 – "Dov'è Auschwitz" di Mimmo Calopresti (Fuori concorso Doc 2005)

Calopresti firma un documentario che nella rievocazione storica della tragedia, pur senza grande originalità, mantiene una sua asciutta incisività e che, d'altro canto, offre ulteriori spunti di riflessioni sulla valenza della storia

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Partiamo da una premessa. Parlare di Auschwitz è difficile. Nell'ossessione generale del "non dimenticare" il rischio è quello di scivolare nell'ovvietà banalizzante o addirittura nell'immoralità della strumentalizzazione commovente. Alla fine, la reazione più umana di fronte alla portata della tragedia è quella del silenzio, dell'afasia. La testimonianza storica è necessaria, purché abbia l'onestà dell'asciuttezza (e in questo Notte e nebbia di Resnais rimane esemplare) o l'urgenza dell'autobiografia, della resa dei conti col proprio passato personale (vedi Il pianista di Polanski). Detto questo, il documentario Dov'è Auschwitz di Mimmo Calopresti ci è sembrato assolutamente dignitoso. Girato durante la visita degli studenti romani ai campi di concentramento, con la partecipazione di alcuni deportati e del sindaco di Roma, Walter Veltroni, il film cerca di cogliere le reazioni dei più giovani di fronte al racconto dell'orrore. Da un lato, la rievocazione storica (che mantiene comunque un posto preponderate rispetto al resto, per la sua stessa valenza tragica) segue un'impostazione non proprio originale, alternando la documentazione diretta, sul campo, ai racconti dei deportati. Ciò di cui va dato atto a Calopresti è la capacità di mantenere uno sguardo neutro, rispettoso della dimensione umana della tragedia. Di certo, non ci viene rivelato nulla di quanto già non sapessimo, ma ci viene risparmiata la retorica. Da un'altra prospettiva, quella su cui dovremmo focalizzare di più l'attenzione, emerge il problema dell'esperienza di chi non ha vissuto quei giorni e si ritrova a vedere e ad ascoltare realtà scioccanti. In questo senso si coglie da parte di Calopresti stesso e dei ragazzi soprattutto una sorta di spaesamento di fronte a verità raccapriccianti. Si può guardare al film anche come ad una riflessione sull'utilità e la portata della conoscenza storica. Quando qua e là si inquadrano i ragazzi commossi di fronte ai racconti dei sopravvissuti si  può pensare che la loro esperienza abbia una valenza morale forte, indelebile. Ma il punto è chiedersi se davvero la memoria possa aiutare ad evitare altri orrori. Nel finale, quando viene chiesto ad alcuni ragazzi quali siano le loro impressioni sul viaggio, si coglie da parte loro un senso d'impotenza, l'incapacità di dire qualcosa che non rientri nell'ovvietà, nel già detto. Forse, di fronte al racconto dell'orrore non si reagisce con lo sdegno: l'unica reazione possibile, sincera è il silenzio, che poi equivale ad una non reazione. Probabilmente in quegli sguardi intontiti, esterrefatti si percepisce l'incredulità, la voglia di tornare nell'oscurità del non sapere. Perchè si è guardato in faccia il cancro del mondo, l'invincibile assurdità/realtà del male e del dolore

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