TORINO 23 – "Il cinema come apparenza". Incontro con Claude Chabrol

Una carriera ancora in corso quella di Claude Chabrol, protagonista di questa giornata del festival di Torino che in due edizioni presenterà la sua filmografia. Un cineasta che nulla concede all'improvvisazione e per il quale il cinema è l'unica arte in grado di mostrare la differenza tra realtà e apparenza.

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È senza dubbio Claude Chabrol il protagonista della sesta giornata del Festival di Torino, l'ex turco, il regista che ci accompagna con le sue storie torbide e le sue purissime messe in scena da quasi 50 anni. La sua carriera si condensa in 70 e passa film tra cinema e televisione, per una retrospettiva torinese che ha bisogno di due edizioni per essere completata e solo questo dà il senso della mole della sua opera. C'è da specchiarsi nel suo cinema apparentemente dimesso, ma sempre ricchissimo di spunti e intuizioni, di visioni geometriche che hanno il dono di riempire un vuoto quello del melodramma noir, oggi assai poco praticato. Erede di una tradizione letteraria tutta francese, iniziò la sua carriera come critico cinematografico dando poi vita alla nouvelle vague che, ancora oggi, resta un punto di riferimento per il cinema europeo e non soltanto.

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Torino ha offerto l'occasione per la visione di un piccolo film di 13 minuti in cui Chabrol ha omaggiato, nell'ambito di una proposta che vede coinvolti altri autori chiamati a misurarsi con un film preferito, M di Fritz Lang.


 


Ma perché M è il suo film preferito?


In realtà non è proprio così, se devo citare un film che prediligo citerei Aurora di Murnau, ma è lo stile di Lang che mi affascina.


Ho tentato, con questo piccolo film, di mostrare il mondo langhiano. Lang era un autore che se anche rendeva a volte espliciti i trucchi che usava, aveva la capacità di utilizzare delle inquadrature sempre efficaci e ciò era dovuto ad una sorta di inquietudine personale. Nella sua inquadratura c'era tutto il mondo e ciò che non appariva sullo schermo non esisteva. In questo senso era un anti Renoir.


 


Lei ha cominciato la sua carriera come critico cinematografico, cosa significa, per lei, oggi, l'esperienza della critica?


La critica è il contrario della costruzione di un film. Il film nasce da una sintesi, la critica utilizza l'analisi. Secondo me per realizzare un film l'analisi è molto importante perché questo lavoro viene prima della sintesi finale. Per questa ragione credo che sia opportuno che chi voglia fare il cinema si cimenti nella critica e credo che questa pratica serva di più che lavorare come assistente o aiuto regista su un set.


 


Per tornare alle sue passioni, lei è molto interessato ai registi espressionisti anche se il suo cinema non utilizza i canoni dell'espressionismo.


Non ho mai ben capito cosa fosse l'espressionismo. Forse Il gabinetto del dottor Caligari è un film espressionista, anche se oggi potrebbe apparire un po' ridicolo, ma credo che non ci sia nulla di più distante da M, per esempio. In realtà non credo che esistano dei film espressionisti, credo, invece, che in alcuni film si possano utilizzare alcuni stili dell'espressionismo. Per questo credo che non possa parlarsi di una scuola, ma piuttosto di un sistema di cose. Non riesco a trovare altre parole, l'importante è che questi aspetti non divorino il film.

Nel suo cinema non ci sono i metodi dell'espressionismo lei però come Lang utilizza il crimine come elemento determinante della storia.


Per Lang il crimine è fondamentale, per me non è così, per me il crimine è un colore per creare un punto di tensione attraverso il quale è possibile fare luce sulla natura umana. Mi pare un modo abbastanza semplice, ma anche efficace e serve al pubblico per farlo avanzare nella conoscenza di se stesso. Il crimine, nello stesso momento rappresenta un eccesso e, personalmente, quando in una storia c'è un crimine so che non mi annoierò. Nello stesso momento, però, non credo, come sostengono alcuni psichiatri, che in ogni essere umano ci sia un criminale. Ritengo che ci sia un punto di fragilità che ad un certo punto fa imboccare la strada del delitto ed è proprio su questo aspetto che mi piace indagare, è l'aspetto che più mi interessa.


 


I suoi personaggi infatti, a volte, sono stupiti di essere di essere dei criminali…


È vero perché alcuni cedono al crimine e altri invece non ne sono contagiati, ma nessuno dei due tipi può essere definito disumano. Credo che operò non si possa parlare sempre di "malattia", quantunque mi piacerebbe fare un film su un criminale "sano".


 


Cos'è secondo lei l'immagine al cinema, qual è la sua funzione?


La questione dell'immagine è molto complessa. Nel nostro lavoro la bella immagine, come quella brutta, dovrebbe sempre essere scartata perchè l'unica funzione che può svolgere è quella di essere al servizio del film. A volte mi stupisco quando sento dire: la fotografia di questo film era bellissima, e il resto mi chiedo?


Credo che la funzione del cinema debba essere quella di dimostrare allo spettatore la differenza tra realtà e apparenza e poi, più in particolare, quella di fare passare la realtà nella fantasmagoria. In questo senso c'è uno scontro tra i due diversi mondi, quello dell'apparenza e quello della realtà, proprio in La damigella d'onore.


Il cinema è l'unica arte in grado di mostrare questo scambio tra la realtà e l'apparenza e non voglio dire raccontarlo, ma proprio mostrarlo. Pertanto, quando l'immagine è insopportabile il che accade quando non svolge questa funzione, bisogna eliminarla.


 


Nel suo cinema ci sono elementi molto importanti: i movimenti di macchina o la musica per esempio, ce ne vuole parlare.


Cominciamo dalla musica. Lavoro molto al missaggio, però credo che la musica nel film non debba sottolineare quello che è già universale, ma deve evocare ciò che non si mostra, deve creare la necessaria ambiguità. In questo senso non deve essere mai ridondante o sovrastare il film. Comunque non potrei realizzare dei film senza musica, come Rohmer per esempio, la musica per me è un rimando all'attenzione del pubblico, a volte, invece, può servire a demistificare.


Quanto, invece, all'altra parte della domanda credo che il movimento di macchina serva ad indirizzare lo spettatore, non serve mai al regista, ma è un modo di dialogare con il pubblico e in questo senso ogni cineasta ha un proprio modo di parlare con il pubblico. La cosa veramente importante è capire cosa si vuole dire con quel movimento di macchina. Ma questo appartiene alla messa in scena ed è questo che mi appassiona. È come quando devo partire, voglio essere sicuro di non avere dimenticato nulla, anche quando realizzo un film devo prevedere tutto. Alcuni autori sono capaci di improvvisare, io non potrei mai farlo. Quando comincio un film tutto deve essere pronto.

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