TORINO 24 – Jean-Claude Rousseau: l'illusione di vedere con gli occhi…

Torino è la scatola nera, a volte più grigia che nera, scrigno dei segreti da difendere. Puoi ritrovarti, imbarazzato, a fissare uno schermo e dentro lo schermo un altro e oltre lo schermo uno spazio sempre più stretto di "Deux Fois le Tour du Monde", credendo di afferrare l'eterno in ciò che è disperatamente fugace. Il cinema a Torino è salvo…

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Torino è la scatola nera, a volte più grigia che nera, scrigno dei segreti da difendere: come nell'ultima sequenza di Sentieri Selvaggi di John Ford, film che apre e chiude il documentario di Peter Bogdanovich, Direct By, nuova edizione del celebre lavoro realizzato su uno dei più immensi registi di sempre. La nuova versione si arricchisce delle interviste dei suoi figli Steven Spielberg, Clint Eastwood, Walter Hill e Martin Scorsese. In quell'ultima sequenza, ad uno ad uno, i protagonisti rientrano in casa, risucchiati dal nero al di qua degli spazi immensi, per essere custoditi e mai dispersi nell'orgia di un'illusione di aver compreso fino in fondo il custode della cinepresa, pronto a sacrificare mille verità apparenti come l'altro immenso Robert Aldrich. Il cinema a Torino è comunque salvo, è un'incursione nel vago, con logori strumenti, quelli della parola, della critica, della comprensione. A quanto serve recriminare sul Concorso Lungometraggi modesto, elogiare il capolavoro di Walter Hill, Broken Trail, o interrogarsi sulla incontenibile richiesta di immagini apparentemente distanti tra loro? C'è sempre quella sensazione che non ti lascia mai: sei convinto di afferrare o almeno credi di afferrare l'eterno in ciò che è disperatamente fugace. Sei ancora più convinto a Torino che il cinema rappresenta noi tutti come siamo nella realtà e non come ci vediamo. Il cinema di Torino tende sempre a darci la nostra essenza percettibile, la nostra presenza, ed è per questo che le sue immagini non assomigliano alla nostra apparenza, di continuo mutevole. Allora ti ritrovi, imbarazzato, a fissare uno schermo e dentro lo schermo un altro e oltre lo schermo uno spazio sempre più stretto di Deux fois le tour du monde di Jean-Claude Rousseau, avanguardista del quadro giusto, come Jean Marie Straub e Danièle Huillet. Avanguardista di Faux Départ, di false partenze, di immagini fatte non per durare, ma per sparire meglio. Meraviglia che rasenta la purezza perché simula a stento il tempo e il movimento per non rompere definitivamente con il reale. Rousseau ormai è ospite fisso di questo Festival e ogni volta che giunge a Torino realizza un nuovo film, magari dalla stessa camera di albergo in cui alloggia da anni. Riscopri così il gusto del dettaglio perpetuo, l'eccentricità magica del dettaglio. Non è visione del mondo, ma la sua rifrazione, nel suo dettaglio, ad armi pari. L'assenza e non l'essenza del mondo in ogni dettaglio, come un'illusione che non si oppone alla realtà, ne costituisce un'altra più sottile che avvolge la prima del segno della sua scomparsa. Attraversando il quadro fisso, da una parte all'altra, apparendo tra la macchina da presa e l'inquadratura, Rousseau inverte lo specchio: è quel piccolo angolo di mondo a farsi specchio, immobile come un peso all'apice del suo pendolarismo, le cui oscillazioni si sono appena fermate e che ancora impercettibilmente vibra. È di questa immobilità che il cinema sogna, è di questa immobilità che sogniamo a Torino, terra in cui ti attardi auspicando un fermo immagine come apice della drammaticità, come traccia indelebile da imprimere per sempre nella memoria. Quella immagine "piatta" di Rousseau, che lascia sospesi otto minuti del nostro sguardo, ricrea il deserto, l'isolamento fenomenale in cui vorremmo ripiombare più volte durante il giorno, percorrendo la città del cinema in silenzio, percorrendo andata e ritorno il mondo in silenzio.

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