TORINO 24 – "Old Joy" di Kelly Reichardt (Americana)

Passo sospeso sul tempo di una fuoriuscita esistenziale, diario di viaggio di una ricerca che spinge Mark e Kurt fuori dai confini della loro civiltà. Una sorta di "deliverance", in bilico tra le esperienze artistiche della filmmaker americana, della fotografa Justine Kurtland, dello scrittore Jon Raymond e del cantautore Will Oldham, alias "Palace"

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Due amici, le montagne dell'Oregon, il senso impossibile di liberazione dalla forza di gravità del quotidiano: Old Joy di Kelly Reichardt è un passo sospeso sul tempo di una fuoriuscita esistenziale, diario di viaggio di una ricerca che spinge Mark e Kurt fuori dai confini della loro civiltà, in uno scenario naturale che smaschera le loro incertezze e sospinge i loro pensieri verso lo smarrimento. La pace e la tensione si confondono in questo road movie centrifugo e spirituale, in cui la filmmaker americana raccoglie l'eredità della collaborazione tra la fotografa Justine Kurtland e lo scrittore Jon Raymond, il cui racconto doveva originariamente ispirare un "Artspace Book" illustrato, per l'appunto, dagli scatti della fotografa di origini polacche. In effetti in Old Joy si respira una trasparenza di segni e ispirazioni che libera lo sguardo e trova una singolare aderenza tra la purezza quasi ancestrale delle immagini della Kurtland e la capacità della Reichardt di attraversare pensieri e situazioni dei suoi personaggi. Il respiro del film trova così il suo ritmo nel sovrapporsi di attese zen e implicite minacce che non trovano mai uno sfogo, in uno stato perennemente crepuscolare che si adombra nella luce dei sentimenti espressi, e al contempo s'illumina nell'ombrosità di una relazione che non dice sino in fondo l'amarezza e la delusione su cui si regge. La contrapposizione è tra la vita strutturata e la vita fluttuante: da una parte Mark, con la sua casa, la compagna incinta, il figlio in arrivo, dall'altra Kurt, che veste ancora una libertà esistenziale di cui si fa quotidianamente scudo contro la tristezza di un mondo che non risponde alle sue attese. Una notte in tenda, la meta di una stazione termale in un bosco dell'Oregon, il tragitto che disperde il cammino mentre perde la strada, il punto zero di un ritorno a casa, ognuno alla sua vita…

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Old Joy rispecchia l'angoscia di un mondo che incombe con la sua violenza silenziosa e costante, una sorta di Deliverance purificato nel gesto immateriale di un'amicizia che non rispecchia più i tempi e le storie dei due protagonisti. L'autoradio rimanda nella banda sonora le riflessioni pre/postelettorali di un'America che appare incastrata nella sua politica disgiunta dal sentire della gente, mentre la musica offerta da Yo La Tengo rimbalza sul corpo musicale di Will Oldham (alias Palace), prolifico cantautore statunitense e punto di riferimento di certa cultura musicale americana, chiamato dalla Reichardt a interpretare le dispersioni di Kurt. Il senso di sospensione trattiene l'attesa su un accadere che alla fine si rispecchia integralmente nel senso panico della natura in cui si spingono i due amici, ma Old Joy è soprattutto un film che rimanda al contraltare di una vita sociale minacciata dalla miseria del bisogno, che amplifica il tradimento di uno stato originario di comunione e partecipazione al Tutto, in cui Mark, Kurt e l'umanità tutta, loro malgrado versano. E' questa la condizione cui aspira Old Joy, ovvero quell'antico appagamento che è l'eco lontana pronta a risuonare nel dolore quotidiano, come rivela in sogno una vecchia indiana all'interdetto Kurt… Film esile e forte, allo stesso tempo, pronto a risuonare di vibrazioni minime, ma attraversato da uno spirito di attesa che non trova più in sé la ragione messianica dell'avvenire. Si parte dal giardino vagamente edenico della casa di Mark, e si finisce nel fermo immagine di Kurt che slitta fuoricampo nel mosso frastuono della città. In mezzo il senso panico di una attesa che resta fuorigioco rispetto alla realtà.

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