TORINO 25 – "Jing tu/ Burning", di Shen Yanjun e Bai Fujian (La zona)

Cronache cinesi dalla fine del mondo: Burning, di Shen Yanjun e Bai Fujian, è un folgorante esordio di una coppia di giovani cineasti cinesi, l’esplorazione dell’abisso di un paese, dei suoi fantasmi e delle sue ossessioni. Si indaga la cenere di un popolo, quel poco che resta di immobile di fronte all’occhio ingrato della videocamera…

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Ancora cronache (cinesi) dalla/sulla fine del mondo, un paese still life ma sull’orlo dell’armageddon: nel festival che celebra Wenders e la sua (splendida) fine del mondo (finalmente in versione lunga e in Super35 mm…) non poteva mancare un’altra annunciazione catastrionfica firmata Cina, cronistorie marziane da un paese in movimento perpetuo. Nell’introduzione a questa versione morettiana del Torino Film Festival ci incuriosiva particolarmente questa sezione stranamente apolide e frammentata diretta da Massimo Causo e chiamata simbolicamente “La zona”: ebbene, di questo non-luogo magmatico e caotico Jing tu/Burning sembra esserne il manifesto più qualificato, o meglio, l’ipotesi più qualificata (nell’incertezza della visione, come ci suggerisce lo stesso curatore nel catalogo, la verità sembra risiedere altrove). Ecco perché lo sguardo dei due giovani cineasti cinesi, Shen Yanjun e Bai Fujian qui all’esordio, sembra davvero non cristallizzarsi mai, come se fosse un moto continuo e trascinante, centrifugo e centripeto allo stesso tempo, a muovere il paese e il cinema stesso: Burning non è altro che un lento bruciare, è la vita che si decompone vivendo. È la storia stessa della Cina, del suo bruciarsi folgorante e rapido, della sua spersonalizzazione continua, delle sue mutazioni transgeniche, delle sue derive e delle sue fughe inumane, ad essere al centro di questa parabola di vita, quella di una fotografa che è alla ricerca di un’ispirazione per continuare il proprio lavoro. Ed è l’atto stesso del vedere il protagonista del film, soprattutto nella sua accezione “tecnico-riproduttiva”, visto che nella scena d’apertura e di chiusura del film c’è proprio il procedimento chimico dello “sviluppo” di un negativo: i registi, insieme alla loro protagonista, sembrano interrogarsi sul valore dell’immagine, ormai relegata a ruolo di mera testimonianza, quasi azzerata nella sua istanza di soggettività. Non c’è traccia, dunque, di quella smobilizzazione, appunto, da “fine del mondo”, di quelle ruspe che abbattono case su case in attesa di un’altra grande opera d’alta ingegneria, di una diga o di un ponte, per spingersi ancora un pochino in avanti, verso l’infinito (ed oltre). Di quella fuga verso il nowhere che la giovane fotografa intraprende, allora, riamane solo qualche panoramica, qualche veduta (forse) del XVIII secolo che raffigura un paesaggio che non c’è più, o che non c’è mai stato: un paesaggio che nel mutare radicalmente rimane sostanzialmente lo stesso, come se la velocità della mutazione fosse talmente alta che l’occhio, splendida macchina (im)perfetta, non riuscisse a percepire le differenze. Spazi alterati dove si muovono personaggi fantasma, proprio come nel cinema ancora in vita di Jian Zhang-ke, a cui i due registi sembrano vagamente ispirarsi, soprattutto nelle tematiche: visivamente interessante e frammentato, il cinema di Shen Yanjun e Bai Fujian colpisce proprio per la sua impossibilità ad essere catalogato, lasciando campo libero a spiazzanti derive narrative dove tratti epici si alternano ad un minimalismo estremo e accerchiante.

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