TORINO 25 – "Los Ladrones Viejos", di Everardo Gonzàlez Reyes (Fuori Concorso)

Città del Messico. Anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Everardo Gonzàlez Reyes porta alla ribalta un mondo marcio, dove la criminalità era un commercio ereditato di padre in figlio, che si imparava come un vasaio impara a creare un vaso con l’aiuto e l’esperienza di un maestro. Un affresco unico su una generazione di guardie e di ladri passati alla storia.

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Fantomas, El Carrizo, El Conejo, Capitan America, El Chacal, El Burrero: eccoli, gli eroi in calzamaglia di un tempo che fu, testimoni ed attori di un passato eroico che non c’è più. Eccoli, questi ladri gentiluomini, avvizziti dal tempo e dall’età, chiusi in galera da 10, da 20, da 30, e c’è persino chi è rinchiuso da 48 anni: qualcuno, è vero, ha ammazzato, ha ucciso, ma la maggior parte ha “solo” rubato, ha tolto il pane di bocca a chi lo stava sputando, semplici Robin Hood di una Città del Messico mai così criminale, mai così nera.
Siamo negli anni Settanta e la criminalità dilaga. Città del Messico sembra essere il buco dove fuoriesce tutto il male del mondo, tutto il marcio che c’è trova nella capitale messicana la sua ragione di vita: eccola la Gomorra lussuriosa e malvagia, popolata da ladri pezzenti e da politici unti e sudati, da sbirri corrotti e da puttane. Everardo Gonzàlez Reyes,-il regista messicano di cui avevamo giù apprezzato il suo La Canciòn del pulque (presentato alla Mostra del Cinema di Pesaro qualche anno orsono), altra disamina piuttosto accorata su un pezzo di storia del paese centroamericano che se ne sta

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andando- sembra riportarla in vita, così com’era, grazie ad un footage piuttosto ricercato, ma soprattutto grazie alle testimonianze dei protagonisti di quell’epoca, a quei vecchi ladri che erano il terrore della popolazione. Gonzàlez Reyes indaga abilmente quei volti scavati, restando attaccato ad essi come per afferrarne l’energia residua di ogni cellula del viso, analizzato quasi lombrosianamente, da parte a parte, dall’alto verso il basso e viceversa. Nel ripercorrerne le gesta, il regista sembra metterli di fronte ad uno specchio e di loro non rimane altro che un’immagine, spogliata di ogni senso, avvizzita e solcata dalle rughe: solo allora si scoprono uomini, esseri umani capaci di raccontarsi senza mezzi termini, smettendo di indossare quelle maschere da supereroi. Quello che rimane di questo manipolo di eroi nullatenenti -che non hanno in mano nemmeno un pugno di mosche, abbandonati in bugigattoli fatiscenti da 3 metri per 2, dimenticati dalle mogli e dai figli- è solamente quel passato che li inorgoglisce, fatto di furti, di botte e di lampi di notorietà. C’è anche chi è riuscito a rubare in casa del Presidente della Repubblica, conquistando le prime pagine dei giornali di tutto il mondo (un po’ come l’albanese misterioso che ha realizzato il colpaccio della vita sfilando via l’orologio dal braccio di Bush Jn. in mondovisione…). E nel ricordare la gloria che fu si scoprono deboli, vulnerabili, forse pentiti.
Sono uomini, dopotutto…

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