TORINO 27- "Politist, adjectiv", di Corneliu Porumboiu (Festa mobile)

 

Mentre un sarcasmo sottile e disincantato tratteggia lo scenario sociale del suo paese, Porumboiu sembra far succedere due punti di vista: un post(neo)realismo che torce alcuni elementi di genere, e una riflessione volutamente naif sulla distanza tra analogico e digitale

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Umorismo nazionale, torsione degli elementi di genere e riflessione sul linguaggio. Tre punti di vista per il secondo film di Corneliu Porumboiu (A est di Bucarest, vincitore della Camera d’Or a Cannes nel 2006), ambientato nella sua Romania e centrato sulla vita quotidiana di un poliziotto. Cristi ha l’incarico di seguire un liceale sospettato di spaccio di hashish, ma giorno dopo giorno non accumula altro che una certezza: il ragazzo non vende droga, si limita a fumarla insieme a due amici. Incalzato dal suo superiore, si rifiuta di arrestarlo perche’ la sua legge morale glielo impedisce, anche se offrire la droga in Romania e’ (ancora per poco, secondo il protagonista) un reato. Politist, adjectiv e’ costellato da scene di dialogo che sostengono il film con un umorismo misurato, un sarcasmo sottile, disincantato e godibile che scorre tra Cristi, i colleghi e le segretarie del suo ufficio (tutti impegnatissimi a lavorare il meno e il piu’ lentamente possibile), e tra Cristi e sua moglie, che in casa ascolta dieci volte la stessa canzone d’amore. Tra una battuta e l’altra a tratteggiare lo scenario sociale del suo paese, Porumboiu sembra far succedere due punti di vista. Nella prima parte le attese, la giornata che scorre minuto dopo minuto, la poverta’ delle case e delle strade di periferia che fanno da sfondo a questo « pedinare il pedinatore » compiuto dal regista, che segue costantemente il lavoro del poliziotto, sembrano evocare una sorta di post(neo)realismo affiancato a una torsione di alcuni elementi di genere (poliziesco?): tre normalissimi ragazzini accerchiati da una sceneggiatura senza eventi e senza svolte. Lentamente emerge il secondo punto di vista, quello che spiega il titolo del film: una riflessione lineare, volutamente naif, tutta portata in superficie dai dialoghi, sulla distanza tra linguaggio e realta’. Una distanza che conosciamo benissimo e che continuamente ignoriamo per poter comunicare, e che affiora nel privato (la discussione tra Cristi e la moglie a proposito di immagini, simboli e metafore usate nella canzone, e l’incredulita’ di Cristi alla notizia che esiste qualcuno – l’Accademia Romena – che studia i cambiamenti della lingua) per invadere il pubblico nel primo finale (quando il comandante pretende di spiegare a Cristi cosa sono la coscienza e la morale servendosi di un dizionario) e nell'ultima scena, quando la frattura tra codice e reale (dunque tra digitale e analogico) si stacca dalle parole per farsi immagine.

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