TORINO 28 – "Neds", di Peter Mullan (Festa Mobile)

neds
Dopo otto anni dal pluripremiato Magdalene, Leone D’oro alla cinquantanovesima edizione del festival di Venezia, torna dietro la macchina la presa uno dei volti simbolo del cinema britannico degli ultimi vent’anni: lo scozzese Peter Mullan. Un cinema il suo che mescola pericolosamente un forte e forse anacronistico "realismo" di messa in scena con improvvisi deragliamenti registici (quasi surreali) che riescono ancora a scuotere lo spettatore

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Neds, si Peter Mullan

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Dopo otto anni dal pluripremiato Magdalene, Leone D’oro alla cinquantanovesima edizione del festival di Venezia, torna dietro la macchina la presa uno dei volti simbolo del cinema britannico degli ultimi vent’anni: lo scozzese Peter Mullan. La sua idea di cinema, improntata alla fusione tra una solida etica di impegno sociale (mutuata da registi come Loach o Leigh) fusa ad improvvise svolte surreali che lo avvicinano vagamente ai maestri della commedia “nera” britannica (Mackendrick in primis), si conferma in pieno in quest’ultimo Neds. Siamo a Glasgow agli inizi degli anni ‘70, immersi in un ambiente studentesco che produce “naturalmente” piccole gang di strada come unici frutti di un ambiente malato. Un ambiente dove la violenza si respira ancora prima di essere perpetrata: nelle famiglie, a scuola, per strada, ovunque si è sempre sull’orlo di un brutale orgasmo di calci e pugni. In quest’ambiente cresce John, un timido ragazzo che le botte di solito le prende, che gode dei suoi successi scolastici e soffre per la sua famiglia frantumata: fratello delinquente, padre alcolizzato e sorellina che subisce in silenzio. Ecco che il percorso dell'ennesimo sweet sixteen verso la dannazione è come fosse già segnato: il suo lento e inesorabile risucchio verso gli istinti di morte che popolano le strade di Glasgow ha il sapore della più dolorosa inevitabilità.

E fin qui niente di nuovo sotto il sole. Siamo sempre dalle parti di un certo tipo di cinema inglese che crede fermamente nella denuncia civile e che si rifugia in un esibito “realismo” di messa in scena, teso quasi a simulare un pugno nello stomaco per lo spettatore. Un cinema questo (Loach certamente, ma anche il primo Greengrass) che ha sempre avuto il suo più grande tallone d’Achille in una sorta di asservimento perpetuo del lato estetico al lato puramente contenutistico. Ed evidentemente il cinema di Mullan non si sottrarrebbe per niente a questo tipo di osservazioni, se non fosse per i suoi improvvisi ed esibiti deragliamenti della pura narrazione, che fanno a tratti “respirare” un film per altri versi claustrofobico nella sua circolarità ineluttabile. Ed ecco che i momenti migliori di Neds sono proprio quelli in cui Mullan accantona la dimostrazione della sua tesi – la violenza endemica che “vive” nelle famiglie o nelle cellule sociali come il distorto sistema scolastico – per concentrarsi più a fondo sui tormenti di John. Quando la macchina da presa si poggia dolente su un ragazzo che è in una continua confusione: morale, privata e relazionale. L’aspetto più scioccante perciò non diventa la "visione" della violenza in sé, quanto l’accettazione totalmente acritica della stessa da parte del protagonista: John si abbandona ai propri istinti più ferini non tanto per un sadico piacere o per mera disperazione, quanto piuttosto per una raggiunta e totale disillusione su ogni aspetto della sua esistenza. Una consapevolezza, a dir poco agghiacciante, che lo fa apparire a tratti come un guerriero kamikaze in cerca di sconfitta invece che di vittoria. Di morte più che di vita. E il cinema di Mullan, proprio come il suo protagonista, oscilla pericolosamente tra una plumbea circolarità piuttosto anacronistica e una visionarietà improvvisa, che esplode solo a tratti, ma che riesce comunque a scuotere emotivamente nel profondo.

 

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