TORINO 28 – “Soulboy” , di Shimmy Marcus (Concorso)

SoulboySoulboy di Shimmy Marcus non ha il respiro per riuscire a raccontare un’epoca e la sua musica. Joe, il suo protagonista è convenzionale e le immagini non lasciano i segni della  memoria, senza alcuna traccia di malinconia, né di ironica condiscendenza. La stoaria viaggia dentro un clima asfittico privo di autentica ispirazione.

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SoulboyIl tentativo di Soulboy è quello di raccontare una generazione attraverso la musica soul. È Joe il protagonista di questa storia che mutua lo svolgersi, da molteplici storie che l’hanno preceduta, da una nutrita schiera di film che hanno voluto raccontare un’epoca attraverso la musica e le storie private dei protagonisti. Potremmo pensare ad American graffiti, ma Marcus non ha il piglio narrativo di Lucas. I suoi personaggi non hanno quel malinconico struggimento di quelle vite al bivio di un mutamento radicale delle proprie esistenze. Si potrebbe pensare a The Commitments, ma Soulboy non ha la grinta musicale e soprattutto non ha la rabbia che stava dietro quell’Irlanda proletaria e fantasiosa.

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Così Marcus racchiude il suo tentativo dentro una scommessa, quella della simpatia dei personaggi, ma da uno stereotipo troppo insistito non si possono pretendere grandi perfomances. Il tempo scorre lento dentro le immagini di Soulboy e quando il protagonista, diviso tra due amori, uno casto e puro e l’altro navigato e sensuale, sceglierà il primo, non ci si trova spiazzati, ma sarà il risultato di una storia che non ha nulla di trasgressivo tranne che le intenzioni.

Purtroppo il film non è neppure il racconto dell’epopea del Wigan Casino, un locale che fece epoca nell’Inghilterra del nord e patria del northern soul. L’autore ci conduce su sentieri già più volte battuti, senza riuscire a dare forza immaginifica ed evocativa alle immagini, senza riuscire a raccontare un mondo, quello dell’anno 1974, che nell’Inghilterra immediatamente prethatcheriana, si stava scrollando di dosso l’epoca della swinging london per entrare nel periodo di un pesante liberismo. 

Il film non ha il respiro per riuscire a raccontare tutto questo, le immagini non lasciano i segni della  memoria, senza traccia di malinconia, né di ironica condiscendenza. La storia si spegne a poco, dentro il clima asfittico che non trova respiro proprio per una assenza di ispirazione, di alcuna voglia di trasgressione, un po’ come il suo convenzionale personaggio. Sembra quasi che Marcus abbia timore di una qualsiasi originalità narrativa o fosse anche un’invenzione visiva. La sicurezza del racconto collaudato, ha trattenuto ogni guizzo inventivo e nel contempo non è servito a smuovere l’interesse per una storia che non vibra come la musica che vorrebbe raccontare.

 

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