TORINO 29 – "A Little Closer", di Matthew Petock (Concorso)

Puro spazio  indie americano: piccola produzione, giovane regista, storia intimista e interpreti sconosciuti. A Little Closer è un pezzo di storia nelle vite di una madre sola e di due figli adolescenti, inizia e termina senza una parabola narrativa, inquadra solo un esile percorso incompiuto. Matthew Petock dimostra un innegabile talento nell’incunearsi con pudore nel privato di questa ordinary people, ma il suo film galleggia un po’ troppo in superficie, non sa affondare emotivamente, non sa farsi pura esperienza visiva

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A little closer

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Puro spazio indie americano: piccola produzione, giovane regista, storia intimista e interpreti sconosciuti. A Little Closer è un pezzo di storia nelle vite di una madre sola e di due figli adolescenti, inizia e termina senza una parabola narrativa, inquadra solo un esile percorso incompiuto. Le prime esperienze sessuali dei due ragazzi e la loro apertura al mondo femminile (scoprendo anche lati oscuri sul loro comportamento) in parallelo alla disperata solitudine della giovane e attraente madre che non riesce più ad aprirsi al mondo sentimentale. Sullo sfondo, ovviamente, l’America della crisi economica e la marginalità della provincia (qui la cittadina di Richmond, in Virginia). Il loro "passato" non lo conosceremo: è messo tra parentesi, forse è perso nelle trame di centinaia di altri film americani indipendenti anni ‘90/’00, un discorso senza inizio e senza fine appunto. E, come già detto per il film di Jaffe Zinn, questa accumulazione di stilemi ormai “classici” della categoria inizia a mostrare pericolosamente il meccanismo: le dinamiche familiari sono qui reali e intense, ma la sensazione di déjà vu si impadronisce dello spettatore dalla prima inquadratura. Matthew Petock (qui al suo esordio dopo qualche cortometraggio) dimostra un innegabile talento nell’incunearsi con pudore nel privato di questa ordinary people, ma il suo film galleggia un po’ troppo in superficie, non sa affondare emotivamente, non sa farsi pura esperienza visiva (come per i film di Noah Baumbach o Tamara Jenkins per fare i primi due nomi). Resta però l’onestà di fondo con cui si affrontano certe tematiche, che (a prescindere anche dalla resa strettamente estetica) dimostra un’innegabile e sincera urgenza espressiva…fosse anche solo per questo il cinema indie americano merita tutta l’attenzione che il mondo dei Festival spesso gli concede.

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