TORINO 29 – “Bereavement”, di Stevan Mena (Festa Mobile)

bereavementLa disperazione grondante sangue che Mena racconta si rivela essere null’altro che un trattatello socio-psicologico di bassa fattura, intento ad arginare il terrore anziché liberarlo. La vittoria del “difforme” di Bereavement non ha nulla di distruttivo e Mena si accontenta di perdersi negli stessi giochini ad effetto di cui si nutre il pessimo remake di Non aprite quella porta firmato da Marcus Nispel
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bereavementStevan Mena sembra avere studiato a fondo la lezione del Michael Myers della prima parte di Halloween – The Beginning e cerca di tributare il suo omaggio alla “creatura” di Rob Zombie per dare forma al piccolo Martin Bristoll di Bereavement, prequel di Malevolence, esordio datato 2004 dello stesso Stevan Mena. Sì, perché Martin Bristoll, rapito a soli sei anni in uno sperduto paesino della Pennsylvania, è affetto da una rarissima sindrome che rende il suo fisico, ma non il suo cuore, invulnerabile al dolore. Ma non bisogna lasciarsi ingannare dalle premesse, nonostante l’interessante incipit, Mena infatti perde presto per strada tutti i suoi buoni propositi e, cinque anni dopo il rapimento del bambino e un problema di scrittura che fa acqua da tutte le parti, scopriamo con rammarico che l’esplosione finale della follia criminale di Martin è solo un fuoco di paglia che ha origini assolutamente innocue. La disperazione grondante sangue che Mena racconta si rivela essere null’altro che un trattatello socio-psicologico di bassa fattura intento ad arginare il terrore anziché liberarlo e perdersi in esso. Come infatti ci viene puntualmente illustrato in una sbrigativa lezione scolastica (non c’è nessun dottor Loomis così maledettamente incapace di spiegare l’orrore, ma solo un pessimo insegnante che ci dice che non c’è nulla da temere), l’uomo non è altro il risultato dell’ambiente in cui vive. E di certo non è facile per un bambino ritrovarsi costretto a recitare il ruolo di spalla del carnefice. Tanto più se imprigionato nel bel mezzo di un macello dismesso (ancora una volta!) e riadattato a spazio di tortura, dove scannare le giovani e malcapitate vittime che il più che distrubato Graham Sutter sacrifica a colpi di coltelli e mannaie per placare i demoni, dall’aspetto di sinistri totem costruiti con ossa di bestiame, che abitano la sua mente e dominano le pareti della sua casa. A farne le spese, in maniera a dir poco rocambolesca, è ovviamente una pacifica famiglia che si raccoglie intorno alla conturbante ed infelice Allison, la diciassettenne rimasta improvvisamente orfana e costretta a migrare da Chicago nel nulla della Pennsylvania per andare a vivere dai suoi zii. Ma come ci ha insegnato tanto horror made in USA anni ’70 e ’80 nessuno è veramente innocente (Bereavement è popolato di figli viziati, genitori egoisti, come la breve apparizione dell’ottimo John Savage, e ancora adulti incapaci di andare oltre i propri preconcetti) e la mostruosità dei redneck di Mena torna ad essere vincitrice in quella stessa guerra iniziata da Tobe Hooper e Wes Craven. Salvo poi accorgersi che la vittoria del “difforme” non ha più nulla di distruttivo e che, per il suo Bereavement, Mena non guarda poi tanto indietro e, più che cercare di portare sulle spalle la spietata potenza teorica di Non aprite quella porta, si accontenta di perdersi nei giochini ad effetto di cui si nutre il pessimo remake di Marcus Nispel. Di fronte alla deformità che abita sotto le superfici del mondo (Bereavement è costruito fino alla nausea sul contrasto che passa tra la serenità dei cieli azzurri e dei campi rigogliosi e l’orrore che si nasconde dietro di essi) il cinema di Mena abbassa lo sguardo. L’immagine in controluce del “mostro” che troneggia nell’alba non fa più alcuna paura.
 
 
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