TORINO 29 – "Jess+Moss", di Clay Jeter (Festa Mobile)

Come due ectoplasmi rimasti sul luogo della loro morte, i due protagonisti sono letteralmente intrappolati in un limbo emotivo e concettuale. Clay Jeter, nel doppio ruolo di regista e sceneggiatore, forza un po’ troppo la mano sull’introspezione, dimenticandosi che a reggere un film sono soprattutto la sceneggiatura e i dialoghi. In alcuni momenti la componente emotiva è impetuosa, in altri manca clamorosamente il bersaglio. La delicatezza di approccio maschera solo in parte evidenti difetti di forma

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Jess ha diciotto anni, è una ragazza nel fiore della sua adolescenza, bella e piena di malinconia. Moss è un bambino di dodici anni. Sveglio e pieno di curiosità verso tutto ciò che lo circonda. Fra i due c’è un legame molto forte ed intimo. I genitori di entrambi si conoscevano, erano molto uniti. Rimasti da soli, il rapporto fra i due si è rafforzato, divenendo di fatto l’unico appiglio concreto alla vita, l’unico contatto umano reale.
Nella torrida estate del Kentucky, il tempo sembra fermarsi. La concezione spazio temporale quasi non esiste. Come se Jess e Moss fossero racchiusi in una bolla di sapone, in una di quelle palle piene d’acqua in cui nevica quando le capovolgi. Sottoinsieme a parte nell’universo mondo, le giornate sembrano tutte uguali a loro stesse; fissità emotiva e visiva. Impreziosita da una splendida fotografia, agevolata da paesaggi rurali molto evocativi, la narrazione riflette in pieno lo stato d’animo dei protagonisti. Bloccati psicologicamente in un passato poco felice, segnato indelebilmente dalla perdita dei genitori, rimangono incastrati nei ricordi. Come quella valigia di cuoio da cui ogni giorno Jess attinge, solo per riascoltare la voce della madre. Magari provando a dare, di volta in volta, un senso nuovo alle medesime parole. Punendosi severamente, in modo compulsivo, per colpe non sue. Come il racconto breve dell’incidente mortale dei suoi genitori, che Moss ambisce ad ascoltare quotidianamente, per bocca della fraterna amica. Come i vestiti perennemente fanciulleschi della ragazza, adulta ormai quasi completamente formata, abbigliata (come sottolinea il suo piccolo amico) come una bambina di dieci anni. E ancora i vecchi vinili, la musica scricchiolante appartenente ad un’epoca lontana. I barattoli di vetro pieni di piante che da anni Moss colleziona e custodisce gelosamente.
Come due ectoplasmi rimasti sul luogo della loro morte, i due protagonisti sono letteralmente intrappolati in un limbo emotivo e concettuale. Durante il film non interagiscono mai se non fra loro. E se il bambino, complice probabilmente la più giovane età, dimostra un’ingenua quanto ammirevole volontà di andare avanti pur portandosi dietro il bagaglio in cui è racchiuso il suo passato, Jess soffre visibilmente di una lieve forma di depressione. Le manca un pezzo importante della sua vita, quell’ingranaggio che non le ha permesso di proseguire con i giusti ritmi verso l’età adulta. Insicurezza atavica femminile che il suo amico non può curare. Perché lui ha più bisogno di una sorella maggiore, piuttosto che un’amica con cui condividere il proprio dolore.    
Clay Jeter, nel doppio ruolo di regista e sceneggiatore, forza un po’ troppo la mano sull’introspezione, dimenticandosi che a reggere un film sono soprattutto la sceneggiatura e i dialoghi. In alcuni momenti la componente emotiva è impetuosa, in altri manca clamorosamente il bersaglio. La delicatezza di approccio maschera solo in parte evidenti difetti di forma.
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