Il secondo lungometraggio di Bennett Miller non è semplicemente un film sullo sport, bensì un universo dotato di tante anime che si compenetrano e completano l'una con l'altra, andando a fondare un racconto epico, universale, che ha la voce inconfondibile di Aaron Sorkin. Tuttavia, quest'epica (o etica?) si fa ancora più universale, travalicando qualsiasi confine nazionale, lasciando impressa una lezione che tocca le corde del cuore, emozionando in maniera unica. Nella vita non si gioca per vincere, l'importante è mettere in gioco sé stessi
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E poi dicono che non ci sia nulla di romantico riguardo al baseball. Di questo si lamenta Billy Beane, il general manager degli Oakland Atheltics, verso la fine del film. Una sola immagine di
Moneyball basterebbe per smentire qualsiasi scettico. Ma il secondo lungometraggio di Bennett Miller non è semplicemente un film sullo sport, bensì un universo dotato di tante anime che si compenetrano e completano l'una con l'altra, andando a fondare un racconto epico, universale, che ha la voce inconfondibile di Aaron Sorkin.
Moneyball è, innanzitutto, una storia di crescita e di riscatto personale, una di quelle parabole che tanto piacciono al cinema americano. Billy Beane è un uomo che ha più volte toccato il fondo nella vita, ancora segnato dalla sua esperienza fallimentare come giocatore, illuso da quel sistema che tanto promette e poco dà. E piano piano lo vediamo riemergere, sperare, anche grazie all'incoraggiamento della figlia (non importa che gli canti “You're a loser, dad”, basta solo una frase e Billy è pronto a cambiare rotta, non solo metaforicamente), acquistare fiducia negli altri e in sé stesso mentre sullo schermo Brad Pitt, in una delle sue migliori prove da attore senza ombra di dubbio, acquista un aspetto sempre più stanco, invecchiato, segno dell'esperienza e della vita che pesa sull'anima del personaggio.
Moneyball è anche un film che ruota attorno al
bromance, in un universo in cui le donne sono relegate sullo sfondo, tanto quanto accadeva in
The Social Network, seppure senza quella vena misogina che lo caratterizzava. Il baseball è un mondo di uomini: forti, sfrontati, insicuri, in cerca di autostima, di successo, di qualcosa che doni loro un po' di fede. È però il rapporto tra Billy e Peter Brand, giovane laureato in economia che convince Beane a usare dati statistici per formare la squadra, a spiccare sugli altri, donando alcuni dei momenti più “leggeri” del film (il giro di telefonate per scambiarsi gli atleti come fossero figurine), tanto quanto attimi più profondi, di riflessione, che amplificano il processo interiore del protagonista, come nella loro ultima scena insieme. Merito della sceneggiatura se tale amicizia, che in realtà si trasforma in un rapporto maestro/allievo in cui non si sa chi sia chi (perché tutti possono imparare dagli altri), riesce a catturare, ma soprattutto della
chemistry tra Pitt e Jonah Hill, i quali danno forza ai loro personaggi, facendoli incontrare in un costante match tennistico giocato sulle parole.
Moneyball è, infine, un film epico, che usa la metafora del baseball per dirci tanto della vita e, in particolare, dell'America. Le immagini, spesso una fusione tra fiction e filmati di repertorio, vanno a creare un racconto di ampio respiro, che fa risuonare tutte le tematiche della pellicola, mettendole in abisso e dando loro un ulteriore significato. Quello del team di Oakland è un sogno che ha scritto “America” sopra: tutti in questa terra hanno una seconda possibilità, una chance di vedere il loro desideri realizzati. È il mito fondativo di una nazione che si perpetua nell'immaginario comune grazie al cinema da più di un secolo. Tuttavia, quest'epica (o etica?) si fa ancora più universale, travalicando qualsiasi confine nazionale, lasciando impressa una lezione che tocca le corde del cuore, emozionando in maniera unica. Nella vita non si gioca per vincere, l'importante è mettere in gioco sé stessi.
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