TORINO 29 – "Of the salamander's espousal with the green snake", di René Frolke (Festa Mobile)

René Frolke, per il suo debutto alla regia, sceglie il taglio documentaristico. Protagonista una famiglia composta da tre elementi. Marito e moglie, piuttosto anziani, hanno adottato il ragazzo fortemente handicappato e per questo rinnegato dai genitori biologici. Il regista spesso però s’incanta in riprese lunghe e insistenti di cieli e acque azzurre, riflessi di luce banali e intramezzi che sembrano discostarsi immotivatamente da un filo conduttore già sufficientemente debole

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L’immagine lievemente e volutamente sgranata, il cielo sereno ormai privo di luce s’illumina grazie a meravigliosi fuochi d’artificio. La sequenza con cui si apre il film si riavvolge su se stessa, quasi impercettibilmente all’inizio; un rewind decisamente premonitore. La memoria, il passato, l’infanzia vissuti attraverso i ricordi e i racconti talvolta dolorosi dei protagonisti altro non sono se non un riavvolgere la propria vita. Ed ecco che la macchina da presa si materializza alle spalle di un individuo, non meglio identificabile. Lo segue come uno stalker nel suo lento e dinoccolato incedere. Silenziosamente verso una meta imprecisata.
René Frolke, per il suo debutto alla regia, sceglie il taglio documentaristico. Protagonista una famiglia composta da tre elementi: una coppia di marito e moglie più un figlio. L’uomo e la donna, piuttosto anziani, hanno adottato il ragazzo fortemente handicappato e per questo rinnegato dai genitori biologici.
Il padre è un tipo decisamente poco loquace, si aggira per la casa con aria burbera e riflessiva, senza praticamente interagire con nessuno. La madre, seduta a tavolino, racconta delle numerose avventure che l’hanno segnata prima da bimba e poi da ragazza. Il rapporto conflittuale con la madre e con i quattro fratelli, la faticosa fanciullezza priva di agi e la carriera da modella naufragata a causa di problemi fisici e genetici. Malata di poliomelite, soffriva di forti asimmetrie corporee che di fatto le hanno impedito di proseguire in un ambito lavorativo selettivo in cui, sa va sans dire, il fisico è la merce più preziosa.
Il figlio, un ragazzone trentatreenne ben piazzato, sembra ai nostri occhi normale. L’intervento della madre ci spiega il suo grave handicap mentale. Impiegato come bagnino, seppur privo di cultura, rivela notevoli doti artistiche. Nel tempo libero infatti si diletta a disegnare quadri. Tratto pen, pennarelli e poco altro. Principalmente paesaggi, filtrati attraverso la particolare percezione della sua mente e della sua fantasia. Opere semplici e vivaci, sembrano quelle di un fanciullo.
La famiglia, che gestisce un albergo affacciato sul Baltico, ha tappezzato l’edificio di questi quadri. Facendone di fatto un piccolo museo.
Altro protagonista è decisamente il paesaggio circostante. La cittadina costiera di Flensburg, la base navale di Murwik. La costa e il mar Baltico, spettacolo a dir poco affascinante. Il regista spesso però s’incanta in riprese lunghe e insistenti di cieli e acque azzurre, riflessi di luce banali e intramezzi che sembrano discostarsi immotivatamente da un filo conduttore già sufficientemente debole. Sembra cambiare di continuo idea in corso d’opera. Passando da riprese più simili ad un reality show che ad un documentario, dove stralci di vita quotidiana vengono riportati senza aggiunte di alcun tipo, a racconti dei protagonisti che vengono, come detto, spesso scalzati da divagazioni paesaggistiche. Il contatto con lo spettatore, guadagnato a fatica, finisce per spezzarsi e doversi ricomporsi di volta in volta.
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