TORINO 29 – “Ulidi Piccola mia”, di Mateo Zoni (Concorso)

ulidi piccola mia
Al suo primo lungometraggio, dopo aver lavorato per la Rai come documentarista e dopo vari cortometraggi, Mateo Zoni si ispira al libro di Maria Zirilli, “Fuga dalla follia. Viaggio attraverso la legge Basaglia”. Pudore e invadenza si confondono in un'opera che sembra lasciar agire liberamente i suoi protagonisti all'interno di una casa famiglia. Probabilmente è proprio questa la capacità migliore del regista: attraversare la quotidianità, scandendo gli attimi di calma e le difficoltà del vivere

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ulidi piccola miaPaola sta per compiere diciotto anni, di cui gli ultimi quattro trascorsi lontano dalla famiglia, in comunità. Non può e non vuole tornare a casa. Figlia di una donna musulmana e di un contadino, si trova divisa tra due culture molto diverse tra loro. Ora sarà inoltre costretta ad affrontare, dopo un lungo periodo di sofferenza, tutte le difficoltà legate alla fine dell’adolescenza e all’ingresso nell’età adulta. Mateo Zoni: “L’idea del film è nata da uno spettacolo teatrale che non ho visto, ma che mi è stato raccontato. Nella pièce, Paola, la giovane protagonista del mio film, canta una poesia di Mariangela Gualtieri: “Giuro che io salverò la delicatezza mia”. Quando me l’hanno presentata, mi ha coinvolto subito quel suo sguardo attraente nel quale è bello perdersi. Ulidi piccola mia è un film sulla delicatezza, che penso sia in assoluto il sentimento più trasgressivo. Il più scandaloso e forse il più rivoluzionario. Per questo vorrei che le immagini avessero sul pubblico un effetto quasi fisico: come una stretta confortante, un’energia sprigionata che infondesse coraggio”.
Al suo primo lungometraggio, dopo aver lavorato per la Rai come documentarista e dopo vari cortometraggi, Mateo Zoni si ispira al libro di Maria Zirilli, “Fuga dalla follia. Viaggio attraverso la legge Basaglia”. Pudore e invadenza si confondono in un'opera che sembra lasciar agire liberamente i suoi protagonisti all'interno della casa famiglia. Probabilmente è proprio questa la capacità migliore del regista: attraversare la quotidianità, scandendo gli attimi di calma e le difficoltà del vivere. Documentario in cui le tre ragazze interpreti principali sono microfonate e potrebbero magari anche guardare in macchina o rivolgersi al cinema quasi come fosse un amico immaginario, pronto a seguirle ovunque e facendo un passo indietro quando i confini si mostrano invalicabili. Tutto il resto conta relativamente, come la presunta (presunta magari solo per noi spettatori) intenzione di mettere a confronto due culture diverse (quelle che compongono la famiglia di una delle protagoniste) o la presunta volontà di tratteggiare un quadro sociale sulle funzioni reali e concrete degli istituti riabilitativi in Italia.

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