TORINO 29 – "Vergiss dein ende", di Andreas Kannengiesser (Concorso)
Andreas Kannengiesser, giovane cineasta tedesco, sceglie per il suo film un profilo dimesso, minimale per raccontare lo smarrimento dei suoi personaggi davanti al distacco dagli affetti. Una storia che si svolge all’interno di uno scenario in cui domina il principio di realtà che costituisce il criterio attraverso il quale il film e la sua, mai irrigidita, sceneggiatura sono costruiti.
Sembra che il tema della malattia sia una costante di questa ventinovesima edizione del festival di Torino. A farci i conti sono almeno quattro (tra quelli visti), i film che affrontano il tema sotto i differenti aspetti interrogandosi sulle conseguenze dell’evento. Uno dei quattro è Vergiss dein ende film in concorso del giovane tedesco Andreas Kannengiesser.
Hannelore è oppressa dalla vita che deve condurre accanto al marito Klaus malato di Alzheimer e fugge da casa, per avere una ragione durante la fuga segue Gunther il suo vicino di casa. Il compagno di questi è morto da poco e il suo desiderio sarebbe quello di elaborare da solo il lutto per la perdita. Il loro rapporto sarà di complicità, ma Hannelore dovrà affrontare anche i problemi del figlio sull’orlo della separazione dalla compagna.
Il cinema tedesco di questi anni, nei casi (assai rari) nei quali ha raggiunto i nostri schermi, al di là delle performances autoriali di Wenders e della sempre indiscutibile autorialità di Herzog, ci ha abituati ad un cinema assai connotato, dai tratti forti e da una certa squadratura della sceneggiatura. Vergiss dein ende contraddice l’assunto perché il suo tratto più evidente è proprio il profilo minimale che sceglie per affrontare i temi, che molteplici, si affacciano nell’evoluzione della vicenda.
Un profilo dimesso che fa rientrare la storia e i personaggi, all’interno di una quotidianità non così immediatamente scontata per la cinematografia tedesca. I protagonisti sviluppano la propria esistenza all’interno di quadri familiari credibili, di una routinarietà consueta che rende, per questa ragione, più drammatici i distacchi.
È proprio il tema distacco a caratterizzare il film costituendone la sua ragione stessa di esistenza. Un altro film, in questa stagione, ha affrontato con una visione altrettanto drammatica, ma con altro e differente tocco autoriale, questo argomento della separazione, del commiato dalla vita, dagli affetti, dalla quotidianità che solitamente ci diventa insopportabile e che ci accorgiamo possa costituire una (unica?) salvifica condizione. Philippe Lioret con il suo Toutes nos envies ci ha condotto a guardare al dopo, a scavalcare con gli occhi del cinema il dopo senza di noi, Andreas Kannegiesser con i suoi cupi e drammatici personaggi, in questo teutonicamente cupi, ci invita, invece, a guardare all’oggi, quando il distacco diventa la condizione della vita. Gunther ha perso il compagno, Hannelore il marito che va lentamente alla deriva dentro un mondo sconosciuto vinto dalla malattia che scardina la memoria e cancella il passato, il loro figlio Heiko sta perdendo la compagna. Ma anche questa circostanza diventa drammatica conseguenza della malattia del padre. Heiko infatti, durante l’assenza della madre, dovrà occuparsi del padre, reggendo la fatica di questa occupazione. Sarà questo il motivo che incrina il rapporto con la compagna e apre un’altra traccia all’interno del film. Se si avesse voglia di indagare su questi temi, si potrebbe pensare al 50/50 di Jonathan Levine, in concorso in questa edizione del festival.
Tutti quindi nel film di Kannengiesser perdono qualcosa e la via di casa che è anche il titolo del film sembra smarrita.
Da qui la fuga di Gunther verso un rifugio sul mare, alla ricerca di una memoria di coppia spezzata dalla morte del compagno, seguito, suo malgrado, da Hannelore che a sua volta fugge da una insopportabile assistenza al marito. I due, dopo le iniziali diffidenze di Gunther, sapranno manifestare una inattesa solidarietà, ma le loro solitudini non si incontreranno. In questo il film di Kannegiesser coglie il segno di una credibilità che se non soddisfa le attese dello spettatore riconduce la storia e i personaggi all’interno di uno scenario in cui domina il principio di realtà che costituisce il criterio attraverso il quale il film e la sua, mai irrigidita, sceneggiatura sono costruiti.
Così, lentamente, impariamo a riconoscere lo smarrimento di chi ha perdito i punti di riferimento, che sapientemente il giovane regista tedesco ha saputo mettere in scena, con la complicità di una credibile e sensibile Renate Krossner, nel ruolo di Hannelore, e che si era già distinta come protagonista e vittima di un altro smarrimento in Settimo cielo, film tedesco oppresso, invece, da un certo raggelamento di scrittura; di Dieter Mann, un Gunther che fa spiccare i suoi eloquenti silenzi che misurano il dolore della perdita, di Hermann Beyer nel ruolo di Klaus che diventa, nella sua infelice regressione, il centro dinamico della storia. Una vicenda quella di Vergiss dein ende dentro le cui pieghe si nasconde una inattesa solidarietà e, nel contempo, una inafferrabile, ma consapevole solitudine che sembra diventare, sempre e comunque, unica soluzione e chiave di ricerca al dramma dell’addio.