TORINO 30 – “I.D.”, di Kamal K.M (Concorso)

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Una ragazza dei quartieri bene di Mumbai e un imbianchino clandestino. Le loro storie s'intrecciano per caso, alla ricerca dell'identità perduta. Terzo lungometraggio, per il regista indiano Kamal K.M., che insegue i fantasmi della resistenza, della soggettiva e falsa soggettiva nella speranza di ritrovarsi. Quasi un reportage in fondo, con la protagonista sempre più accerchiata e asfissiata da una storia senza fine. Ricorda per certi versi il cinema di Brillante Mendoza, ma senza avere ancora però quella forza visionaria d'invischiamento nella cultura “bassa”

 
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idIn un grattacielo di Mumbai, dove la città è in piena espansione edilizia, una giovane ragazza dei quartieri bene, chiama un imbianchino per rifare un'intera parete dell'appartamento. L'uomo mentre procede nel lavoro, cade senza forze a terra e da quel momento comincia un assurdo calvario per la ragazza, che dovrà soccorrere una persona alla quale non ha chiesto neanche il nome. In ospedale l'uomo muore e Charu prenderà a cuore questa causa, cercando in tutti i modi di rintracciare la sua famiglia, senza però avere nessun documento e nessun indirizzo che possa aiutarla nella ricerca, che la condurrà nei quartieri più fatiscenti e malfamati della metropoli indiana. Storia di mondi paralleli, senza rappresentanza, storia di clandestini che non “esistono”.

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Al terzo lungometraggio, il regista indiano Kamal K.M. insegue i fantasmi della resistenza, della soggettiva e falsa soggettiva in cerca dell'identità di un popolo, di un individuo. La città è un cantiere aperto, un fragore continuo, un rumore di fondo interminabile in una frenetica e disperata speranza di ritrovarsi. La lentezza è bandita. La macchina sbatte sui corpi, di dimena nella folla, per poi ripartire o ritrovarsi in una nuova scena, apparentemente quieta. Non c'è dubbio che la regia sembra pienamente consapevole del tragitto da imboccare, nonostante ci si perda a scoprire angoli della città ai confini con la realtà, tra i rifiuti del progresso senza fine e le baracche della popolazione indigente. Cinema esplorativo che sa prendere le distanze dai suoi corpi nei momenti di maggiore frenesia, che sa lavorare sui contrasti di contenuto e sulle metafore dell'esistenza perduta. Come quando Charu, nel pieno della sua ricerca, tra i cumuli di spazzatura e il fango della baraccopoli, riceve la chiamata del suo possibile nuovo datore di lavoro, con il quale discute di marketing e prodotti adidas.
 
idLa corsa ad ostacoli e la sensazione di sbattere continuamente contro un muro di gomma, fatto di omertà, reticenze, arretratezze culturali, si innervano di strana ed estraniante suspense, come in un atipico thriller/horror metropolitano. In più, si percepisce una tendenza a volersi quasi perdere nei meandri della città, tra i palpiti concitati del turbamento visivo e narrativo. Quasi un reportage in fondo, con la protagonista sempre più accerchiata e asfissiata da una storia senza fine. Ricorda per certi versi il cinema di Brillante Mendoza, ma senza avere ancora però quella forza visionaria d'invischiamento nella cultura “bassa”, l’emozione di fronte alla bellezza dei corpi, la volontà di sezionare il legame sociale di cui questi corpi sono l’emblema. Anche Kamal, come Mendoza però, sublima proprio la lotta del cinema e della visionarietà contro la morte dentro la morte, riscoprendo la sovrimpressione come atto d’amore tra immagini e parole. Perché la lieta fine non è lieta e non è fine… questo è cinema, a sprazzi magico, di comprensione e captazione dell’illusione, è profezia che vede lontano, troppo vicino.
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