TORINO 30 – “London – Modern Babylon”, di Julien Temple (TFF/doc internazionale)


Il film di Julien Temple è frutto evidente di un grande amore per la sua città. Un film tutto teorizzato dentro la scrittura per immagini, in cui il montaggio diventa componente essenziale non perdendo mai di vista il controllo del ritmo. Un flusso così ricco e naturale di immagini apparentemente ingovernabili che trovano, dentro la struttura immaginata da Temple, il loro ordine originario, il loro senso profondo che diventa epifania rivelatrice

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London - Modern BabylonJulien Temple reinventa Londra, sua città natale, riscrivendone, attraverso percorsi sotterranei e con una grande gioia di raccontare, la storia attraverso le mutazioni sociali e culturali, attraverso le parole di alcuni suoi abitanti.
 

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London Babylon si trasforma così in un caleidoscopio di colori, musica e immagini che travolgono lo spettatore, trascinandolo ed invitandolo a guardare al fenomeno della metropoli con un occhio differente che non sia quello esclusivo di una convivenza forzata nel solo doveroso rispetto delle sue regole. Il film è frutto evidente di un grande amore per la città e già dentro l’incipit, che ci accoglie in una Londra da primi decenni del secolo, ma già storicizzata dalle immagini del cinema, comprendiamo che lo scopo di Temple è tutto teorizzato dentro la scrittura per immagini il cui sapiente utilizzo, anche grazie ad un montaggio dentro il quale il controllo del ritmo è assoluto e mai perso di vista, costituisce un valore aggiunto del film. A cominciare proprio da quelle immagini d’archivio che, nella loro antica fattura, diventano elemento base per la sua costruzione. È proprio l’estrema ricchezza delle fonti d’archivio e la loro variegata natura a diventare protagonista indiscusso di questo film che sembra essere sempre in fase di costruzione per la naturale implementazione delle immagini e per il naturale accumularsi degli eventi. Nei molteplici percorsi che il regista propone ritroviamo i punti di vista di alcuni dei suoi abitanti che non tanto raccontano della città dei propri tempi, ma – e perfino i più anziani – sanno guardare al futuro immaginando la città a venire, immaginando la Londra del loro stesso futuro che sembra appartenergli pur nella loro assenza.
 

In questo flusso così ricco e naturale di immagini, che sembrerebbero apparentemente ingovernabili, ma che trovano, dentro la struttura immaginata da Temple il loro ordine originario, sembra stare il senso profondo del film che diventa epifania rivelatrice, intuizione che ci spiega come sia difficile, eppure possibile, raccontare una metropoli, raccontarne le sue dimensioni culturali. Il film di Temple diventa un treno che passa veloce e nel cogliere il quadro complessivo del paesaggio, con agile leggerezza, riesce a fissare, dentro il piacevole caos, il particolare di una vita, il calore di un sentimento dentro i racconti e le brevi interviste che intervallano la voce fuori campo.
Questa dimensione sognante restituisce la complessa struttura metropolitana, apparendo la soluzione come l’unica possibile per raccontare una metropoli come quella. Ma sembra essere necessario un occhio universale, un mostruoso grandangolo che sappia condensare, come accade, nella sequenza finale del pescivendolo che pubblicizza la sua merce cantilenando, nella sua lingua una musicale filastrocca, le sue radicali trasformazioni sociali, le positive derive culturali della nostra civiltà occidentale, in altre parole l’immagine di una città che non è possibile fissare dentro l’occhio umano perché si muove ad un ritmo superiore di ventiquattro immagini al secondo.

 

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