TORINO 30 – "Pavilion", di Tim Sutton – TORINO 30 (Concorso)

Pavilion, di Tim Sutton - in concorso al 30° TORINO FILM FESTIVAL
Tim Sutton segue gli adolescenti in BMX tenendosi a distanza, come a non turbare il sogno astratto in cui sono immersi, per restituire l'indefinibile dilatazione del tempo di quelle infinite giornate estive che è così difficile riprodurre con parole adulte. Il film è ben girato, esteticamente impeccabile: malgrado questo, o forse proprio per questo, è più un collage di frammenti rubati ai film di Gus Van Sant che uno stato della mente al quale concedersi senza esitazioni

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Pavilion, di Tim Sutton - in concorso al 30° TORINO FILM FESTIVALPresentato al SXSW Festival come un altro debutto americano visto in Concorso, Sun Don't Shine, Pavilion segue il quindicenne Max (Max Schaffner)  dai boschi e i laghi di Syracuse, nello stato di NY, dove vive con la madre – alla stanza d'albergo del padre e ai giardini periferici di una cittadina dell'Arizona, un promesso paradiso dove l'anno scolastico è più corto e fa sempre caldo.
Là si osservava la pioggia cadere in veranda accanto ai cani e la barca era un taxi per tuffi in acqua gelida, qui invece si lascia arrivare la sera tra evoluzioni in bici e skate sulle rampe, in una cava appesa alla strada rotabile, punteggiata dalle luci dei tir sulla rotabile: ma le passeggiate che si trasformano in esplorazioni se solo ci si inoltra in una macchia di verde, il non aver bisogno nè voglia di programmare gli spostamenti, lasciandosi andare a una specie di istinto primordiale per tutto ciò che potrebbe essere una sfida o un'avventura, quel senso di perfezione alla quale manca sempre qualcosa (il futuro) – queste emozioni fluttuanti e inespresse, sono le stesse per i teenager di un luogo e dell'altro.

Tim Sutton ama quei film che ti lasciano sbirciare in un mondo che, quando il film finisce, è ancora lì: continua a esistere. Qui i protagonisti sono ragazzi del posto, lasciati liberi di muoversi su un canovaccio di base. Sutton li segue come un narratore estraneo con la sua  Canon 5D, cercando di non farsi notare, sfiorando gentilmente con lo sguardo gli adolescenti in BMX grazie a piani sequenza che assecondano perfettamente i loro movimenti, tenendosi a distanza, come a non turbare il sogno astratto in cui sono immersi. Il tentativo è di farsi pura osservazione, e così restituire l'indefinibile dilatazione del tempo di quelle giornate estive, così intense, infinite, dove apparentemente accadeva nulla e che è così difficile riprodurre con parole adulte. Di tracciare l'irrisolvibile equazione della giovinezza: che resta e resterà sempre un mistero affascinante, secondo il regista, forte della sua esperienza di insegnante di cinema per bambini e ragazzi di ogni età. Il film è ben girato, esteticamente impeccabile nel disegnare un paesaggio etereo e rarefatto (le figure di Max e della ragazza che scompaiono nella foresta, gli adolescenti in piedi sugli alberi scossi da un vento leggero, ragazzi selvaggi fermi in un istante di libertà assoluta, il bagno nel lago gelido, ripreso a pelo d'acqua) ma malgrado questo, o forse proprio per questo, non riesce a diventare uno stato della mente al quale concedersi senza esitazioni.

Così anche i lampi poetici della soundtrack, firmati da Sam Prekop dei Sea and Cake, finiscono per risultare leziosi, cadendo sempre così aderenti a sottolineare l'emozionante bellezza dei paesaggi e la purezza languida dei crepuscoli, in una sorta di Stand by Me senza però lo struggimento, un collage di frammenti rubati ai film di Gus Van Sant – ovviamente Paranoid Park , in parte Elephant – ma giustapposti come in una mostra fotografica e senza il sentimento del regista di Portland: molto più che una semplice eco, è l'influenza più evidente su Pavilion, peraltro dichiarata dallo stesso Sutton insieme a molte altre, non solo cinematografiche. I ragazzini che crescono nella libertà, spesso dolorosa, dei romanzi di Russell Banks (La legge di Bone, che tra l'altro sarà adattato per il cinema da Debra Granik) o le atmosfere di un Safe di Todd Haynes ma sotto sedativi, senza malattia. Sutton, cresciuto a nord dello stato di New York, dove si svolge la prima parte del film, dice di aver rielaborato anche i suoi ricordi d'infanzia e nel contempo di essersi ispirato soprattutto a Last Days (ma senza riuscire a ricreare quel microcosmo magico/tragico) al primo film di Bruno Dumont L'età inquieta (molto più immediato e rigoroso) e all'eccellente Ballast di Lance Hammer (decisamente meno estetizzante e più sentito).

Pavilion è stato completato e promosso (con un bel sito creativo, che introduce alle atmosfere rarefatte del film) anche grazie alla produzione dal basso su Kickstarter, ed è stato già acquistato da Oscilloscope Labs per la distribuzione digitale. 

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