TORINO 30 – “Tabun Mahabuda/The first aggregate”, di Emyr ap Richard e Darhad Erdenibulag (Concorso)


The first aggregate
sembra avere come impronta genetica quella di escludere sottraendo materiale informativo e ogni componente diegetica, per una essenzialità dei fatti che mostri solo l’esito definitivo della narrazione. Un processo artistico interessante, forma antinarrativa estrema ed Emyr ap Richard e Darhad Erdenibulag ci fanno assistere all’epilogo del racconto, ci indicano la strada che percorrono le narrazioni quando si concludono, frugando la dove si raccolgono i loro rifiuti e i loro scarti riciclando, reinventando e rimaterializzando

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The first aggregateL’esperimento di Emyr ap Richard e Darhad Erdenibulag è, probabilmente, quello di raccontare una storia attraverso il non detto, il non pronunciato, il non filmato. The first aggregate sembra avere come propria impronta genetica quella di escludere, di sottrarre il materiale informativo, di eliminare la componente diegetica del testo, lasciando del tutto ripulita l’essenzialità ultima dei fatti, l’esito definitivo della narrazione. Un film girato a quattro mani in cui, la parte forte del narrato, quella che avrebbe consentito una piena comprensione di ciò che accade è, invece, sullo schermo del tutto lasciato fuori, trascurato, inutilizzato. Un processo creativo interessante a dire il vero, illuminante quando questo metodo di esclusione diventa misura di una forma antinarrativa estrema.
 

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 Nel rispetto di questa scelta artistica, indubbiamente audace ed evidentemente congeniale, ad una cultura che resta misteriosa nonostante l’estendersi della rete informativa, The first aggregate resta un film anomalo e insondabile che racconta della crisi di un attore che – ma lo apprendiamo dalla sinossi del catalogo – è reduce da un incidente perché in effetti è uno stuntman, ma Richard ed Erdenibulag, nel rispetto del loro principio creativo omettono gran parte di queste informazioni. È per questa ragione che il girovagare del protagonista alla ricerca della casa ideale e i lunghi e silenziosi piani sequenza che lo vedono insieme alla sua ragazza, restano misteriosi nella loro lontananza, oscuri e senza una reale prospettiva. Si ha l’impressione che per i due autori il racconto sia finito e resti soltanto il vuoto, il nulla dopo la fatica dei fatti. Questa forma così asciutta in cui l’antinarrazione assurge a stile è completata da un accurato lavoro sulle immagini che agiscono in perfetta simbiosi con il resto del testo, per non costituire mai ricerca del bello nella sua accezione comune, ma forma differente di fascino, ritagliate così come sono ai margini del racconto, inquadrate dentro le fessure degli angoli degli interni o così antologicamente antinarrative – a loro volta – come nella lunga sequenza del taglio della barba del protagonista.
 

È indubbio che i due autori si siano presi un bel carico sulle spalle, ma ci hanno fatto assistere a questo epilogo del racconto, ci hanno indicato la strada che percorrono le narrazioni quando sono ormai finite, frugando la dove si raccolgono i loro rifiuti e i loro scarti riciclando, reinventando e rimaterializzando.

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