TORINO 30 – "The Liability", di Craig Viveiros (Concorso)
Sospeso tra ritratto sociale, con un’Inghilterra sullo sfondo sempre più waste land e il racconto di formazione, The Liability contamina i temi dello Sweet Sixteen di Loach con una violenza parossistica e un’ironia da black comedy. Ma questo lavoro sui sottotesti della narrazione è poi il limite principale di un racconto che rifugiandosi dietro l’iconografia degli attori – e il rinvio “pavloviano” ai loro registi di riferimento – sembra non avere una reale urgenza espressiva finendo per far coincidere la propria messa in scena della violenza con quella altrettanto ludica dei videogiochi amati dal protagonista
Craig Viveiros, che aveva esordito a Torino lo scorso anno col lungometraggio Ghosted, valso il premio per miglior attore a Martin Compston, indimenticabile sweet sixteen di Loach, si confronta proprio con i temi di quel film – la ribellione e l’istinto anarchico della gioventù, la solitudine dell’esperienza adolescenziale e la drammatica assenza di figure adulte formative – contaminandoli con una violenza parossistica e un’ironia da black comedy che sembrano guardare tanto a Tarantino quanto a Guy Ritchie.
Sospeso tra ritratto sociale, con un’Inghilterra sullo sfondo sempre più waste land e racconto coming of age strutturato su più livelli come un videogioco, con l’inserimento di nuovi personaggi – l’imprevista eroina action Carly – e la creazione di nuove alleanze e colpi di scena, The Liability trova in questa sua duplicità sia un’attrattiva sia un punto debole. Se infatti è apprezzabile il tentativo di tradurre uno scenario già visto, un tema già sperimentato con coordinate diverse, attraverso il pastiche di generi e l’uso decontestualizzato degli interpreti, che da Tim Roth a Peter Mullan giocano con i propri ruoli iconici recuperandoli, come il Mr. Orange di Roth, o invertendoli di segno, come il Mullan di My name is Joe o ancor più quello del Tyrannosaur di Paddy Considine, autore affine a Viveiros per una comune poetica della violenza che rifiuta però ogni infiltrazione di humour nero.
Eppure, si diceva, questo stesso rispettabile lavoro sulla struttura, sui sottotesti della narrazione, è poi il limite principale di un racconto che non azzanna quando dovrebbe; che rifugiandosi dietro l’iconografia degli attori – e il rinvio “pavloviano” ai loro registi di riferimento – sembra non avere una reale urgenza espressiva finendo per coincidere con una messa in scena della violenza altrettanto ludica dei videogiochi usati da Adam.