TORINO 30 – "The Liability", di Craig Viveiros (Concorso)

Torino Film festival The Liability Craig Viveiros
Sospeso tra ritratto sociale, con un’Inghilterra sullo sfondo sempre più waste land e il racconto di formazione, The Liability contamina i temi dello Sweet Sixteen di Loach con  una violenza parossistica e un’ironia da black comedy. Ma questo lavoro sui sottotesti della narrazione è poi il limite principale di un racconto che rifugiandosi dietro l’iconografia degli attori – e il rinvio “pavloviano” ai loro registi di riferimento – sembra non avere una reale urgenza espressiva finendo per far coincidere la propria messa in scena della violenza con quella altrettanto ludica dei videogiochi amati dal protagonista


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Torino Film Festival - The liability Craig Viveiros

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Una catena di colpe, di debiti e responsabilità, liability appunto, termine che gioca con entrambi i risvolti semantici che vengono a comporre il romanzo di formazione del diciannovenne Adam. Avvezzo alla violenza virtuale dei videogame, è costretto a scontare una punizione fuori dall’ordinario per aver distrutto la costosa auto del patrigno Peter Mullan: fare da autista al sicario Tim Roth col quale, all’interno di una progressiva educazione criminale, si aprono squarci affettuosi di un legame padre-figlio.

 

Craig Viveiros, che aveva esordito a Torino lo scorso anno col lungometraggio Ghosted, valso il premio per miglior attore a Martin Compston, indimenticabile sweet sixteen di Loach, si confronta proprio con i temi di quel film – la ribellione e l’istinto anarchico della gioventù, la solitudine dell’esperienza adolescenziale e la drammatica assenza di figure adulte formative – contaminandoli con una violenza parossistica e un’ironia da black comedy che sembrano guardare tanto a Tarantino quanto a Guy Ritchie.

 

Sospeso tra ritratto sociale, con un’Inghilterra sullo sfondo sempre più waste land e racconto coming of age strutturato su più livelli come un videogioco, con l’inserimento di nuovi personaggi – l’imprevista eroina action Carly – e la creazione di nuove alleanze e colpi di scena, The Liability trova in questa sua duplicità sia un’attrattiva sia un punto debole. Se infatti è apprezzabile il tentativo di tradurre uno scenario già visto, un tema già sperimentato con coordinate diverse, attraverso il pastiche di generi e l’uso decontestualizzato degli interpreti, che da Tim Roth a Peter Mullan giocano con i propri ruoli iconici recuperandoli, come il Mr. Orange di Roth, o invertendoli di segno, come il Mullan di My name is Joe o ancor più quello del Tyrannosaur di Paddy Considine, autore affine a Viveiros per una comune poetica della violenza che rifiuta però ogni infiltrazione di humour nero.

Eppure, si diceva, questo stesso rispettabile lavoro sulla struttura, sui sottotesti della narrazione, è poi il limite principale di un racconto che non azzanna quando dovrebbe; che rifugiandosi dietro l’iconografia degli attori – e il rinvio “pavloviano” ai loro registi di riferimento – sembra non avere una reale urgenza espressiva finendo per coincidere con una messa in scena della violenza altrettanto ludica dei videogiochi usati da Adam.


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