TORINO 31 – Blue Ruin, di Jeremy Saulnier (Concorso)

Il giovane Jeremy Saulnier conosce molto bene la storia del cinema americano e orchestra un secco ritratto del Sud come non si vedeva da Un gelido inverno. Ma tutta questa consapevolezza (Gus Van Sant appare un riferimento palese) si arena non tanto nella semplificazione estrema dei delicati temi trattati, quanto in una messa in scena che non ha mai la maturità necessaria per turbare nel profondo lo spettatore

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In pieno spirito indie americano Blue Ruin mette subito le carte in tavola dalla prima sequenza: disagio sociale, disperazione del losers metropolitano, un passato ingombrante; e poi fotografia iper-realista, predominanza dei primi e primissimi piani, macchina da presa a mano. Stilemi diventati paradossalmente “classici” per il cinema indipendente degli ultimi anni. Il protagonista, Dwight, è un senzatetto con una tragedia familiare alle spalle (l’efferato omicidio dei suoi genitori) che riaffiora all’improvviso come un incubo quando scopre che l’assassino è uscito di prigione dopo quindici anni. Il film è la scioccante radiografia della sua reazione: una regia “incollata” alle emozioni della sua cavia e un sonoro tutto in soggettiva che fa percepire lo stato confusionale. Un ennesimo faccia a faccia con l’incubo delle armi per il cinema americano (impressionante il numero di fucili che fuoriescono dalle viscere delle normali case) in un film che avviluppa i suoi personaggi in un vortice di violenza inarrestabile, risultato di un passato “familiare” tenuto totalmente fuori campo. Fatto conoscere solo per brevi echi. Il resto è solo vendetta…

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Il giovane Jeremy Saulnier conosce molto bene la storia del cinema americano e orchestra (un po’ come l’ultimo James Franco) un secco ritratto del Sud come non si vedeva da Un gelido inverno. Ma tutta questa consapevolezza (anche Gus Van Sant sembra un riferimento palese) si arena non tanto nella semplificazione estrema dei delicati temi trattati, quanto in una messa in scena che non ha mai la maturità necessaria per turbare nel profondo lo spettatore. Per andare oltre il “trattato” sulla violenza e le armi ed erompere nella sua perturbante universalità cinematografica, proprio come nel miglior Van Sant. Questo è un film sicuramente sincero, spinto da una voglia tutta “giovanile” di inseguire un’autorialità alta e senza compromessi, che per almeno mezz'ora regge bene il paragone coi suoi modelli…ma “alla resa dei conti”, spiace dirlo, frana sotto il peso delle sue stesse ambizioni. Non produce troppi fantasmi, solo qualche shock.

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