TORINO 31 – Il treno va a Mosca, di Federico Ferrone e Michele Manzolini (Concorso)

Il treno va a Mosca

Nel 1957 Sauro Ravaglia barbiere di Alfonsine con alcuni suoi compagni di partito, anche cineamatori, va a Mosca per partecipare al festival della gioventù. Le loro cineprese registreranno quel viaggio della vita. Da quelle immagini in bianco e nero scorgiamo un’Italia commovente e piena di speranza, felice anche un’utopia in cui potere credere. Per questo la disillusione di oggi, per quelli come Sauro, è più faticosa da sopportare

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Il treno va a MoscaCe ne sono state tante, in questi anni, di operazioni di recupero di una memoria storica o di costume e che hanno colmato lacune rileggendo i fatti e ricostruendo gli eventi, ricerche che hanno attualizzato la cronaca del passato. Ciò non è avvenuto solo nel cinema, ma è un lavoro che appartiene, più diffusamente, al mondo della cultura complessivamente considerato. È un segnale che manifesta l’insoddisfazione per i tempi che corrono che da origine alla ricerca, in un passato felice o così immaginato, del segreto della speranza.

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Nel 1957 Sauro Ravaglia barbiere di Alfonsine, in piena Romagna, Comune governato dal Partito comunista, con alcuni suoi compagni di partito decide di andare a Mosca per partecipare al festival della gioventù. Sauro e gli altri sono anche cineamatori e le loro cineprese registreranno quel viaggio della vita che oggi è un bellissimo ricordo.

Ferrone e Manzolini hanno lavorato con l’attenzione dovuta nel costruire un film che sul filo dei ricordi racconta un’epoca, una generazione, un territorio, un modo di concepire la politica, rammentandoci che le parole come “pace” sono concetti radicati in un lessico politico già del passato e non sono pronunciate ora grazie ad una esclusiva da copyright.

Per tutte queste ragioni Il treno va a Mosca acquisisce significati differenti, pur nella sua ridotta durata dei 70 minuti, tanto è denso il suo contenuto.

Il problema è sempre quello dello sguardo sul passato che assume, proprio nell’atto stesso di compierlo, tranne che non si tratti di una ricerca scientifica, i tratti di una nostalgia esibita. I due registi dichiarano che nelle loro intenzioni non vi è alcun desiderio di nostalgia, quanto, piuttosto quello di raccontare un’utopia, quella di Sauro, che appartiene alla sua sfera politica e che lui continua a ricercare in giro per il mondo durante i suoi viaggi. Il commento alle immagini discreto e appassionato della voce fuori campo dello stesso Ravagli accompagna le immagini delle cineprese amatoriali e quei brevi film raccontano di una capacità narrativa, di una volontà espressiva non comune per dei cineamatori. Sono le sequenzeIl treno va a Mosca dedicate al funerale di Togliatti a restituire il senso di quelle attese e quanto contasse, nella vita delle  persone l’impegno politico. Proprio per queste ragioni il senso di sottile e perdurante disillusione, che oggi si legge sul volto del protagonista, si profila come il peso di un tradimento, tanto più grave e doloroso quanto la storia di quelle persone sia stata guidata da quelle scelte.

Da quelle sequenze in bianco e nero non professionale scorgiamo però l’Italia di allora commovente e piena di speranza, felice, forse di un benessere riconquistato e di un’utopia in cui potere credere. Viene da pensare guardando il film di Ferrone e Manzolini che tanta sensibilità hanno dimostrato e grande rispetto per il loro protagonista, che ci sarebbe bisogno oggi di un altro treno che come quello di Eduardo De Filippo o quello di Sauro Ravagli ci portasse la dove l’utopia è ancora possibile e non solo sostantivo scritto sui vocabolari.

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