TORINO 31 – La danza de la realidad, di Alejandro Jodorowsky (After Hours)
L’autore cileno torna sul suo passato, in un amarcord iperrealista, trasposizione filmica della sua autobiografia omonima, ambientata nella citta’ natale, Tocopilla, al nord del Paese. Ricerca disperata di un sentiero, del senso della vita, autobiografia immaginaria, fantasmagorica. Tod Browning, Luis Bunuel, Federico Fellini, tutti uniti nel segno della follia più assoluta. Cinema in cui sembra manchi il prima e il dopo, c’è solo un lungo e attesissimo attimo, attimo senza tregua…
Testamento filmato che si muove a briglie sciolte, senza freni espressivi e senza doversi misurare con lo stile maledettamente perfetto. Il cinema di Jodorowsky è la psicomagia che non rappresenta il normale per rappresentare il nulla, che non rappresenta il saggio sulla società, ma la poesia dell'uomo. Vecchio e nuovo, maestro e infante, nella stessa inquadratura, nello stesso spazio, quello della gioventù di corsa, del brusio della gioventù come rumore di fondo perenne, come un rumore bianco di creature e non creatori. È lontano dalla realtà, imitatore dell'esistenza, idea peregrina del muto o terra e polvere che torneremo ad essere. Questo è cinema in cui sembra manchi il prima e il dopo, c’è solo un lungo e attesissimo attimo. Attimo senza tregua che scoraggia l'abbozzare previsioni: tutto insieme, il cinema chiede di essere considerato un unico atto, un miracolo mai esaurito in una fiammata. Come nel luogo (politico) della coscienza, niente di quello che si mostra è inventata: ogni cosa è fintamente accaduta e accade in apparenza. Qualcosa di più di un ritratto, di un quadro e la sua cornice: quando Jodorowsky del presente entra in campo per avvicinarsi all’infante che fu, il set si espande, squarcia le memorie, lascia aperta sempre una porta da cui uscire o entrare, lascia che l'immagine prenda (il) corpo. Fare cinema per dimostrare con non viviamo nel migliore dei mondi e del cinema possibili, che restano sempre fuori, dalla finestra o dalla sala: il fuori di Jodorowsky non è mai del tutto escluso, esiste e si annuncia, arricchisce e smargina il dentro. E' obliquo ed elegge o rifiuta il nostro sguardo messo a dura prova se rifiuta di coniugare il valore e la densità del testo con la misura necessaria dell'adattamento visivo. Jodorowsky e il suo definitivo spessore digitale è impressionante, riscopre ancor di più il controllo del tatto, una primitiva capacità di composizione e le sue impronte (digitali) sono ormai indelebili. Come “close calls”che l’autore ha scambiato in passato all’interno del suo gruppo di appartenenza, per garantire coesione, e che anche quest’ultimo saggio filmato ha disseminato, tra sbalzi repentini di rumori, frastuoni e cacofonie, sono richiami disperati alla ricerca di una danza inebriante.