TORINO 32 – Giorno 4 – Catastrofi

Abacuc, Luca Ferri

Wi waren könige di Philip Leinemann e The duke of Burgundy di Philip Strickland sono i due film del concorso della quarta giornata. Esiti differenti ne segnano i risultati. Stessa sorte per il poco convincente Los hongos del colombiano Oscar Ruiz Navia e per l’olandese In your name di Marco van Geffen. Dalla sezione Onde presentato Abacuc di Luca Ferri

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Wi waren könige,  Philip Leinemann Un filo comune di incombente o consumata catastrofe nella quarta giornata, rovine personali e collettive, metaforiche ed esistenziali che ripercorrono le immagini e gli schermi.

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Il concorso ha offerto due opere che rivisitano, con differenti esiti, i generi. Wi waren könige, del tedesco Philip Leinemann, appartiene all’action movie in cui si esaltano le doti di onestà e solidarietà. L’occasione è offerta da vicende interne ad una squadra speciale della polizia. Tra corruzione e pentimenti un film solido, dall’impianto classico che resta nel cervello più che nel cuore, ma che cattura attraverso una costruzione ad incastri successivi che si svelerà completamente nel teso finale. Un film roccioso con uno sguardo originale al mondo infantile. Il destino e il suo compiersi si consumano nel manifestarsi di un desiderio d’accettazione di un bambino immigrato e ed emarginato. Un espediente narrativo originale che arricchisce il film e ne radica l’interesse.

The Duke of Burgundy dell’inglese Philip Strickland riesuma il cinema erotico inglese degli anni 70. Un’operazione che ci pare soffra di un difetto genetico nel riesumare, con canoni e senso complessivo dichiarato, un genere lontano nel tempo. La storia delle due donne amanti, studiose della vita delle farfalle non cattura i sensi dentro un estetismo morente e marmoreo.

Los hongos del colombiano Oscar Ruiz Navia, nella sezione TorinoFilmLab, costituisce il tentativo di convogliare dentro una storia sfumata di due giovani graffitari colombiani, i malesseri di una società in subbuglio. La rinascita che si genera dalla morte e dalla consumazione del presente. Purtroppo il film soffre di un complessivo disordine che se da un lato vuole tradurre la condizione esistenziale dei suoi protagonisti dall’altro sembra, invece, sfuggire di mano, come un composto impazzito, senza più forma e anima.

Una compostezza minimale è la cifra stilistica di In Your Name di Marco van Geffen, nella stessa sezione, storia di una coppia benestante che perde, dopo la nascita la sua prima figlia. I coniugi reagiscono alla morte della neonata con atteggiamenti differenti. Il regista lavora sulle loro psicologie, costruendo un film che resta fedele ad una In your name, Marco van Geffencompostezza nord europea, che sembra pervadere ineluttabilmente una società intera. C’è una narrazione silenziosa di un’intimità mancata, di un rapporto che mostra i segni precoci di un logoramento dei suoi tratti essenziali. I cuori dei due protagonisti non battono mai all’unisono e l’avere raccontato con trasporto ed essenziale tratto questa condizione è un pregio innegabile. Il film, pur nel suo nativo distacco da ogni calore dei sentimenti, possiede una sua originale personalità che si manifesta nel silenzioso procedere della storia che da una ipotetica felicità di coppia, sfocia nella tragedia assoluta trasformando, nel suo racconto, l’amore in odio e il bene in male.

La sezione Onde, sempre così attenta alle sensibilità diverse che si agitano nel grande corpo del cinema, ha proposto Abacuc del bergamasco Luca Ferri. Abbiamo già avuto modo di guardare al cinema di questo autore attraverso i suoi Magog e Habitat. Abacuc è un film spiazzante che vede il suo protagonista vagare in un mondo di estinti, un ecce homo come lo definisce il suo autore. Opera complessa e nello stesso tempo giocosa, che nel bianco e nero sgranato dell’inattuale super8, Abacuc, Luca Ferrisembra volere celebrare, con ossessività, la storia di qualcosa che non esiste più. Abacuc è un grido disperato e contenuto dentro un’ironia contrappuntata da una partitura musicale e verbale originale composta da Dario Agazzi. Testi densi di un umorismo che sembra volersi schiantare in un diabolico quanto fanciullesco giocare con le parole (la contessa di Montetristo) o nel quale si attinge alle metafore di Adorno per ridicolizzare il presente. Ha un bel coraggio Ferri a mettersi in gioco con un film così elaborato che entra dritto nella catastrofe e che si offre vulnerabile al tiro incrociato del suopubblico. Il protagonista è quindi Abacuc ultimo possibile testimone e profeta muto di un mondo inesistente, metafora del cinema che sprofonda e del racconto che non può più esistere, insieme grido rotto che decreta una fine e vitalità estrema con cui si racconta la morte. Nello sfuggire ad ogni catalogazione il film, come il suo autore ammette,è un’opera che viene dall’oltretomba. Nello stesso momento sembra sfuggire ad un’analisi consueta, tanto estremo il suo senso finale, la sua complessità percettiva.

Se Renè Clair con il suo Entr’acte si era preso gioco del cinema appena nato associando liberamente le immagini con un cinema automatico che celebra con l’intermezzo un omaggio all’imbecillità, Ferri ne decreta una fine, stabilendo che il racconto si fa solo ossessività ripetitiva, misura e ricordo del nulla in un mondo sterile residuo di un passato i cui echi sembrano raccolti dall’innocente Abacuc prima della sua stessa scomparsa.

 

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