TORINO 32 – Onde – Un viaggio ai limiti dello sguardo

Perdersi nelle Onde del Torino Film Festival è (da) sempre una straordinaria avventura. Un viaggio ai limiti dello sguardo, ai confini del mondo/cinema, in una tempesta che travolge lo spettatore invitandolo ancora oggi a “pensare per immagini”. Un anno particolare questo, dominato da sguardi giovanissimi, alcuni esordienti, che hanno dato corpo a una selezione paradossalmente più di “confine” rispetto ad altre edizioni

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Motu MaevaPerdersi nelle Onde del Torino Film Festival è (da) sempre una preziosa avventura. Un viaggio ai limiti dello sguardo, ai confini del mondo/cinema, in una tempesta che travolge lo spettatore invitandolo ancora oggi a “pensare per immagini”, nella piacevolissima e necessaria condizione di parte attiva nel discorso. Nel corso degli ultimi anni questa sezione ci ha fornito visioni folgoranti (che dire delle straordinarie retrospettive su Miguel Gomes, Yu Lik-wai o Eugène Green? Che dire della scoperta di giovani cineasti come Martin Boulocq, Sebastien Betbeder, Leonardo Brzezicki, ecc…), epifanie visive che ci hanno accompagnato a lungo illuminando emozioni e riflessioni ben oltre il tempo di Torino. Anno particolare questo. Dominato da sguardi giovanissimi, alcuni esordienti, che hanno dato corpo a una selezione paradossalmente più di “confine” rispetto ad altre annate. Del resto è giusto reagire così alle tempeste del nuovo millennio, alle crisi e alle cure dimagranti imposte a molti Festival in giro per il mondo: è giusto scoprire e cavalcare “nuove onde”.

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YetiUn’edizione di forti riflessioni sul “dispositivo”: parecchi film hanno ragionato sui modi e sui tempi della messa in scena oggi, sull’ambiguità ontologica dell’immagine in un’epoca dove l’appiattimento cronico sulla disambiguizzazione di ogni fenomeno è paurosamente imperante. Ecco: due piccoli gioielli come Yeti e Motu Maeva  ragionano proprio sull’opportunità e sul senso di produrre ancora immagini oggi, riconsegnando (da punti di vista opposti) una sana e sacrosanta complessità al visibile. Yeti, del giovanissimo regista indiano Abhijit Mazumdar,  ci immerge nell’indistinzione ormai cronica tra immagine finzionale e documentale: sulle tracce di un Kiarostami riletto da Tsai Ming Liang (referenti enormi, chiaro, l’ambizione è tanta, forse troppa, ma va benissimo così) una “troupe” vive producendo immagini che diventano più vere del loro reale. Senza confini tracciabili se non quelli sentimentali: siamo “noi” spettatori ad avere il privilegio di tracciare confini o assegnare maschere. Il Cinema è solo nostro.

Altra Onda. Nello stupendo Motu Maeva di Maureen Fazendeiro è la risemantizzazione delle immagini in Super 8 a diventare operazione dialettica che schiude una memoria, ritrovando solo nel tra del montaggio un senso profondo, producendo immensi scarti di significanza nella rimemorazione immaginifica di quest’anziana signora (Sonja Andrè) che ha vissuto vite e mondi diversi. Tra colonialismo e guerre, tra Europa, Asia e Africa, tra film, fotografie e sentimenti. La memoria di Sonja si schiude attraverso il “dispositivo” cinema, in un’esperienza estetica che immagina il passato ma lo declina al presente in una liminale e superba riflessione sul tempo. Alla fine non rimane che ballare oggi, in un’isoletta sperduta, sulle onde dei (suoi) suoni passati…40 minuti di cinema rigenerante. Filo diretto con l’onda dei misteri irrisolti ne La Huella e la Niebla dell'argentino Emiliano Grieco: un passato di morte avvolto dalla nebbia e dall’oscurità, nel percorso “emotivo” di un giovane che torna alle sue origini appesantito da una colpa e da una ferita che non si rimargina, ma sanguina perennemente come l’immagine che la produce. Un film che cattura gli occhi estaticamente e fa sentire tutto il peso di una natura incombente: un’ottima opera prima, forse eccessivamente ambiziosa, ma capace comunque di rimanere viv(id)a negli occhi dello spettatore dopo giorni dalla visione.

Butter on the LachVisioni. Come la retrospettiva dedicata a Josephine Decker. Regista americana giovanissima, generosa, ambiziosa, sfrontata e integerrima. Capace di produrre film intimamente femminili nel materializzarsi di ombre e streghe “antiche” interfacciate ai fantasmi tutti contemporanei che filma. Si viaggia nel Sud degli Stati Uniti tra echi di Lynch e Malick, ci si perde nelle foreste “oltre” le città, nelle fattorie del Kentucki (Thou Wast Mild & Lovely) o nei Balkan Kamp californiani, per produrre ancora cinema a partire dalle sovrapposizione scoordinata di sogno e vita (Butter on the Lach). Un viaggio al limite degli USA proprio come quello di Andrew Betzer in Young Bodies Heal Quickly: le ceneri dell’american dream vengono di nuovo materializzate nell’on the road declinato questa volta tutto al “maschile”. Un cinema a volte grezzo e indeciso, ma mai sterile, portatore sano di una potenza immaginifica sconvolgente. Ed ecco arrivati alla Fine. All’estrema, provocatoria, densissima operazione di Abacuc con la quale l’italiano Luca Ferri ci spintona dentro le visioni di un”senso” in sfacelo, erigendo un monumento all’ultimo profeta possibile che esorcizzi la morte (dell’arte?) con l’ironia e il ripetere ossessivo-e-meccanico di formule ormai vuote (Adieu au langage?). Tra Becket e lo sperimentalismo anni '60, un'opera inclassificabile, a tratti respingente, ma terribilmente necessaria e di capitale importanza.

Ci risiamo allora: l’esperienza di Onde 2014 ha tracciato nuovamente una straordinaria “perdita” di coordinate. Geografiche ed estetiche. Certo, le opere selezionate da Massimo Causo e Roberto Manassero chiedono molto al loro spettatore: chiedono di mettersi in gioco, di rinegoziare codici e attese, di porre in discussione (pre)concetti e (pre)giudizi, per sondare nuove traiettorie nello sguardo. Ecco: si potrebbe paragonare l’esperienza dello spettatore di Onde al breve e magnifico corto Hacked Circuit di Deborah Stratman, dove uno dei grandi capolavori della Storia del cinema (La conversazione di Francis Ford Coppola) erompe da odierni schermi periferici mentre viene misteriosamente ri-sonorizzato. Ma è proprio tra quei suoni e quelle immagini rubate che la mdp della regista ci avvolge ci e spiazza, riformulando un’esperienza percettiva che diventa familiare e vergine nel contempo. Una piccola/grande onda di vita a partire dalla calda memoria del passato. Il cinema, in fondo, è sempre stato questo…

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