TORINO 32 – Retrospettiva New Hollywood, anno secondo

Easy rider, Dennis Hopper, 1969

La retrospettiva della New Hollywood che quest'anno si è completata, ci ha restituito la visione di un cinema che ci appartiene. Quei film ci hanno insegnato a trovare la bellezza la dove invece sembra essere sfiorita o la forza e l'eroismo nella debolezza e nella disillusione. Il pubblico del Festival si è riconosciuto in queste storie e riconoscendo le tracce della propria memoria ha affollato le proiezioni.

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Il laureato, Mike Nichols, 1967Se nel passato c’è la chiave per interpretare il nostro presente, l’assunto vale anche per il cinema. Se è altrettanto vero che il Festival di Torino, ha assunto, negli anni, la fama di imperdibile occasione di ricerca e di scoperta, ciò vale anche per questa 32esima edizione così critica e in bilico, così tanto di transizione, così pericolosamente esposta e, a volte, così fuori contesto, rispetto a quelle passate.

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Per cui, la retrospettiva della New Hollywood che quest’anno completa il suo percorso biennale, diventa riprova di una ricerca nella passata storia del cinema per comprendere un presente così incerto, superficiale e dalle prospettive di sguardo a volte limitate.

L'appuntamento torinese, in questi anni, ci ha insegnato ad attualizzare il passato con la proposizione delle belle retrospettive di prima linea (Chabrol, Polanski, Cassavetes, Wenders…) e l’anno scorso la prima parte della New Hollywood passaggio cruciale del cinema che rifletteva le complessità sociali, le nuove prospettive che animavano quel presente e l'urgenza di raccontare le nuove istanze culturali che animavano un occidente con una gran voglia di pace da una parte e una inquietudine politica dall'altra, che spingeva i governanti ad utilizzare guerre assurde e lontane sia come strumenti di distrazione da un presente che si faceva complesso e articolato, ma anche per riaffermare egemonie economiche volte a soddisfare gli appetiti La ballata di Cable Hogue, Sam Peckinpah, 1970consumistici utili a consolidare i pilastri su cui si reggevano le democrazie. Il cinema ha quindi attinto al subbuglio che si viveva e, nella crisi, la dove il malcontento si unisce alla speranza di futuro, ha proliferato la vena artistica, la creazione ispirata che ha ribaltato il senso delle cose aprendo nuovi scenari al cinema e facendo spalancare gli occhi su realtà del tutto sconosciute. Il mito di Hollywood sembrava oscurarsi e altri nomi e altri luoghi diventavano riferimenti culturali.

Dalla letteratura allo spettacolo si accentuava il desiderio di partecipazione. Gli autori del cinema volgevano lo sguardo al futuro o al massimo al presente, anche quando raccontavano il passato. Questo nuovo piglio narrativo ha fatto nascere un cinema che non solo ha rotto gli equilibri del classico impianto produttivo hollywoodiano, ma che miracolosamente è rimasto vivo ancora oggi.

Non si tratta soltanto del cinema liberal, quanto piuttosto di una voglia di aprire nuove frontiere, ricreare i miti sostituendoli con quelli di una quotidianità insistita. I cineasti americani di quegli anni (ad eccezione di alcuni, I tre giorni del condor, Sidney Pollack, 1975Spielberg, ad esempio, che ha sempre lavorato su un cinema spettacolare di dimensione universale), hanno scoperto la figura dell'antieroe quale comune denominatore di una società che rifiutava, per ragioni sociali e politiche, la classica figura dell'eroe mitico. I volti di Al Pacino, Dustin Hoffmann, Robert Redford, Kris Kristofferson, Jack Nicholson e Dennis Hopper, tanto per fare qualche nome, ci riconducono immediatamente dentro questo nuovo ordine delle cose. Da questi inediti presupposti è nato un altro e nuovo mainstream culturale, nel quale ancora oggi troviamo i segni di quell'epoca e dei profondi mutamenti che ancora in qualche modo ci appartengono. È questo il cinema che in pochi anni ha (ri)costruito le storie non solo d'America e in una specie di involontario imperialismo ha scritto pagine non eludibili della storia di questo ricco e prezioso artigianato che è il cinema.

Il Festival di Torino nelle due ultime edizioni ha saputo condensare questi racconti e queste immagini gettando una luce anche sul cinema dei nostri giorni, facendoci rivivere (ma si tratta di età e quindi a volte solo vivere) le suggestioni e gli sguardi trasversali sui personaggi, offrendocSugarland express, Steven Spielberg, 1974i la visione di un cinema che ci ha insegnato spesso a trovare la bellezza la dove invece sembra essere sfiorita o la forza e l'eroismo nella debolezza e nella disillusione. E il pubblico ha gradito, riconoscendo le tracce della propria memoria e ancora più immediatamente riconoscendosi in quel cinema, che oggi comincia ad essere storicamente lontano, ma non datato, tanto la forza dei generi esalta il racconto rendendolo al contempo universale e spettacolare. Le sale del festival si sono riempite decretando il successo di questa ricca retrospettiva così piena di titoli da anni spesso invisibili e decisivi.

Un cinema che si è affacciato al mito e che è oggi è diventato mitico non soltanto perché ha saputo assorbire i fermenti di un'epoca, di un'America in trasformazione, di un Paese che vedeva morire per mano assassina alcuni dei suoi uomini di valore, ma soprattutto perché è stato fedele testimone e narratore di corposi movimenti culturali che hanno ispirato i nuovi modelli narrativi, modificando le ipotesi produttive che hanno favorito l'affermazione di una sorta di principio autarchico, come è accaduto ad esempio con la Corman Factory che è diventata negli anni modello imitato e prolifico, fucina di talenti e motore di una serialità cinematografica assolutamente invidiabile, lavorando alacremente sui generi come mattoni necessari alla vita dello spettacolo. Al fondo vi era non soltanto una voglia di novità, ma un desiderio di mettere in scena, fare conoscere e agire attraverso il cinema.

Cosicché la nuova Hollywood attraverso le storie di Easy rider, Dennis Hopper, 1969Peckinpah ha racconta non soltanto la fine di un'epopea ma anche e soprattutto il disagio e il disadattamento, attraverso le storie di Altman il sapore amaro della sconfitta, con il lavoro di Pollack gli antieroi della storia sconosciuta, con il lavoro di Kasdan ha messo in scena la disillusione, con il cinema di Nichols un modo differente di guardare ai sentimenti, con l'incipiente cinema di Spielberg ha gettato uno sguardo alla paura collettiva, con le storie di Coppola alle passioni segrete di un'America mimetizzata, con le narrazioni tese di Pakula ha guardato ai segreti di un Paese sotto controllo e poi con tutto l'altro cinema ha contribuito a rimuovere le certezze, a fare mancare la terra sotto i piedi e quindi a far guardare al suo pubblico e en plein air ad un territorio sempre in movimento, popolato da anime ribelli e inquiete destinate a finire massacrate sotto i colpi di fucile sparati da due diseredati lungo una delle tante highway dei grandi territori, la dove Ford raccontava ancora il suo mito che sembra oggi sparire sotto quegli spari e rivivere, sotto altre spoglie, sui volti e nelle immagini di quel cinema che più passa il tempo e più sentiamo nostro.

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