TORINO FILM FESTIVAL 26 – "Bi-Mong", di Kim Ki-duk (Fuori Concorso)

Quindicesimo lungometraggio di Kim Ki-duk, Bi-Mong è un film in cui il regista coreano ri-mette in campo, con meccanismo perfetto, le ossessioni che compongono tutta la sua filmografia, all’interno di una costruzione che conferma lo sgretolamento spazio-temporale e di una narrazione lineare attuato film dopo film. Un film di tensione cronenberghiana dove Kim Ki-duk conduce ancora una volta i suoi personaggi in isole di desiderio e morte, rendendoli corpi da massacrare.

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Quindicesimo lungometraggio di Kim Ki-duk, Bi-Mong è un film in cui il regista coreano ri-mette in campo, con meccanismo perfetto, le ossessioni che compongono tutta la sua filmografia, all’interno di una costruzione che conferma lo sgretolamento spazio-temporale e di una narrazione lineare attuato film dopo film. Spingendola, questa ricerca, nel pericoloso e affascinante territorio del sogno, che da luogo virtuale e parallelo viene trasformato in corpo che si materializza producendo sui personaggi coinvolti una inarrestabile mutazione mentale e fisica. Che potrà interrompersi solo regolando i conti con il proprio passato, ri-cominciando ad amare, liberando i propri corpi e le proprie menti nella condivisione di un desiderio realizzabile però altrove, non in questa vita…

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 A trovarsi in questo vortice sono Jin (l’attore giapponese Jô Odagiri) e Ran (l’attrice coreana Lee Na-young). Lui fa l’incisore, lei crea vestiti. Abitano due case che sono altrettanti set straordinari, inestricabili luoghi di vita intima e lavoro. Spazi fuori dal comune, come il tempio, l’abitazione della psicologa o quella dell’ex fidanzato di Ran, dentro i quali i personaggi si spostano quasi tras-portati senza stacchi dall’uno all’altro. Nel viaggio appunto senza stacchi fra la notte e il giorno, il bianco e il nero, la realtà e il sogno. Entrambi hanno un passato sentimentale che non è passato: Jin ama ancora la donna che l’ha lasciato; Ran vorrebbe dimenticare l’uomo con cui aveva una relazione, ma non puo’. Ran è sonnambula, a un raro livello di gravità, e mette in pratica, nel suo vagabondare nel sonno, i sogni che Jin fa. Vortice senza via d’uscita, che unisce sempre più quei due personaggi fino ad allora del tutto  estranei (come capita anche in altri film di Kim), complici di un percorso estremo: solo non dormendo, o dormendo a turno, sarà possibile scongiurare derive ancora più devastanti… Ma anche ammanettati, Jin e Ran non sfuggiranno alla loro sorte. Nel segno di un doppio suicidio liberatorio in un film di tensione cronenberghiana dove Kim Ki-duk conduce ancora una volta i suoi personaggi in isole (e L’isola rimane il suo capolavoro…) di desiderio e morte, rendendoli corpi da massacrare, qui nella cella di un manicomio, dove Ran viene rinchiusa dopo l’omicidio dell’ex fidanzato, e nella casa di Jin, dove l’uomo, per impedirsi di dormire tentando così di salvare la ragazza, inizia un’autocrocefissione lacerandosi la testa, i piedi, le mani con uno scalpello e un martello. Il cinema dolcemente e inesorabilmente sadico di Kim si illumina di nuove esperienze… Spazi, il manicomio e la casa, ancora, in intima vicinanza, uniti dal montaggio parallelo e da un canto tradizionale corso, Lamentu a Ghiesù, usato anche in altre scene da Kim (come in quella, capolavoro, girata nel campo di grano, dove Jin e Ran inseguono e incontrano i loro fantasmi-amanti del passato in una ronde di scontri fisici dolorosi e necessari). Film, Bi-Mong, che si apre nell’altrove di un sogno di Jin, per ritrovarlo, quell’altrove, nella quotidianità ormai spalancata sull’abisso, e si chiude nell’aldilà che è diventato un territorio urbano, lo spazio sotto un ponte dove il corpo senza vita di Jin può risvegliarsi con accanto Ran, il cui corpo suicida in cella è dissolto verso quell’altrove. Le mani si stringono. Il cinema di Kim Ki-duk osserva, con la sua forza muta e pittorica, e tesse il nuovo capitolo di un procedere immediatamente riconoscibile.

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