TORINO FILM FESTIVAL 26 – "Ho bisogno di avere qualcosa di difficile da realizzare" – Incontro con Roman Polanski

L’incontro con il regista polacco è uno dei momenti più attesi del Festival torinese, ma qualcosa da subito non funziona e la rigidità sulla quale appare avviata la conversazione sembra imporre a Moretti una traccia già segnata e preannunciata: parlare di “cinema” e del modo di procedere durante la lavorazione di un film insistendo solo sugli aspetti tecnici senza mai concedere nulla di se alla sala, non sembra avere particolarmente scaldato il cuore del festival.

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Quanto è stato importante per te frequentare la scuola di Lodz anche pensandoti come spettatore?

Innanzi tutto vorrei spiegare le condizioni in cui ho vissuto quei cinque anni della scuola di cinema. Era quello il periodo stalinista e fu un periodo molto triste per la Polonia. In quegli anni si vedevano pochissimi film provenienti da altri paesi. In massima parte si vedevano film italiani del periodo del neorealismo e qualche film francese. Si può dire che all’epoca tutto fosse nazionalizzato e anche il cinema lo era attraverso il Ministero della cultura. Mi ricordo che esisteva una commissione che visionava i film e si potevano vedere solo quelli che queste persone decidevano fosse giusto vedere. Per questo c’è stato un momento in cui pensavo di perdere il mio tempo. Ma oggi posso dire invece che quello fu un periodo molto importante e se oggi sono qui e anche grazie a quel periodo.

 

In quegli anni hai sognato di vedere realizzato un progetto sul regime?

Era pressoché impossibile anche se in quegli anni Munch realizzò un film che si chiamava Fortuna strabica ed è stato quello il primo film che ha denunciato un’inumana burocrazia.

 

Ci sono due film che ti dispiace di non avere mai realizzato e due film di cui sei particolarmente contento e che sei felice di avere girato?

Tra quelli non realizzati c’è sicuramente un film su "Il maestro e Margherita". In realtà il film era quasi pronto era stata scritta la sceneggiatura e la Warner lo doveva realizzare, poi tutto è stato abbandonato. Lo stesso accadde con un film che avrei dovuto girare con John Travolta, ma in quel caso in realtà si trattava di un progetto molto complicato.

 

Come mai hai esordito con un film molto difficile come Il coltello nell’acqua dove tu dovevi essere anche il protagonista cosa che poi non è accaduta…

Me lo hanno sconsigliato in molti tenuto conto che già mi dovevo occupare della direzione artistica. Il mio primo incarico fu di collaborare con Munch proprio nel film di cui parlavo prima, Fortuna strabica. In quello stesso periodo ho parlato del progetto che avevo in mente di realizzare e in particolare in quel periodo andavo in barca e frequentavo dei luoghi molto belli dove ci sono almeno duecento laghi ed è per questo che ho voluto ambientare Il coltello nell’acqua in quei posti.

 

C’era anche Skolimowski …

Si lui già lavorava anche se in realtà ancora non aveva il diploma. Lui si occupava maggiormente di scrittura e difatti fu lui a rimaneggiare la sceneggiatura riducendo la storia che doveva svolgersi in tre giorni a soli due giorni.

 

Sappiamo che ti è stato chiesto di rigirare il film con attori famosi un po’ come ad Haneke con Funny games…

Rigirare un film mi sembrerebbe un’autosodomizzazione…

 

Ti è mai venuta voglia di girare un film per parlare di politica? 

Quando alla scuola di cinema abbiamo vissuto, dopo la morte di Stalin il disgelo, c’era una grande euforia e ho visto molte persone che dall’oggi al domani hanno cambiato opinione. In quel periodo fui incaricato di guidare una delegazione a Varsavia e forse davvero in quel momento ho pensato che avrei potuto fare il politico. Non mi sembrava così difficile in realtà. Poi ho capito la futilità della politica e quindi ho abbandonato completamente qualsiasi velleità per quella carriera e ho imparato ad attribuire unico valore soltanto alle mie convinzioni. Credo che per questa ragione non ho mai voluto realizzare un film esplicitamente politico.

 

Hai lavorato molto per la scrittura dei tuoi film con Gerard Brach che rapporto c’era con lui?

C’era l’assenza assoluta di un metodo. Mi ricordo che parlavamo di tutto e devo dire che ci divertivamo a parlare. Per quanto riguarda i film che scrivevamo si parlava indifferentemente della fine o dell’inizio de film. In Cul de sac abbiamo messo le cose che al cinema ci piaceva vedere, ma in realtà non sapevamo dove saremmo finiti. Si andava avanti e basta. Poi più avanti abbiamo imparato a gestire meglio il nostro tempo.

Si andava molto al cinema, a Parigi per un periodo vedevamo i film dell’horror inglesi e per esempio Per favore non mordermi sul collo è nato da quelle visioni. Non capisco i cineasti che dicono di non andare mai al cinema, secondo me dovrebbero cambiare mestiere.

 

In La morte e la fanciulla proponi al tuo pubblico un finale aperto come ti poni davanti a questo tipo di scelte?

Spero sempre che il mio pubblico non sia mai certo di quello che vede. Per quanto mi riguarda non lo so. Poi questo dipende anche dal mio rapporto con gli attori. Credo che gli attori debbano avere dei segreti che non necessariamente debbano condividere con il regista. Il rapporto con il pubblico in effetti è strano. A volte scopro che gli spettatori vedono delle cose insospettabili o ridono quando non me lo aspetto o viceversa. È successo ad esempio con L’inquilino del terzo piano non credevo di avere realizzato un film così drammatico, la mia intenzione era quella di girare un film più divertente!

 

Hai frequentato l’accademia di belle arti oggi che rapporto hai con il disegno e come lo utilizzi per i tuoi film?

Tra tutte le fasi di lavorazione di un film quella della scrittura è di certo la più difficile. Per questo mi aiuta moltissimo disegnare, in questo modo mi viene più facile e immediato comunicare con i tecnici, il costumista e tutti gli altri collaboratori. Quando giravo i miei primi cortometraggi disegnavo lo storyboard, poi ho capito che in qualche modo limitava le mie scelte e oggi ho smesso di seguire questo procedimento e disegno solo quando devo coinvolgere nelle decisioni tutta la troupe. Preferisco lasciarmi la libertà di sistemare la macchina da presa dove ritengo che in quel momento sia giusto.

 

Hai lavorato con Cassavetes per Rosemary’s baby cosa ne pensi del suo cinema e poi della nouvelle vague, del free cinema e del cinema italiano?

In quel film era previsto Redford, ma in quel periodo aveva un problema con la Paramount e quindi si è deciso per Cassavetes. Personalmente sono molto lontano dal cinema di Cassavetes vengo da un’altra scuola. Trovo che i film di Cassavetes siano amatoriali, mal fatti.

Quanto alla nouvelle vague non mi ha mai interessato. Certo i film di Truffaut mi piacciono. Ma tutti questi film vengono dopo il neorealismo italiano e quella è stata un’epoca affascinante. Si aspettava sempre il prossimo film di quegli autori. Guardare quei film era come andare in estasi.

 

Hai realizzato film in molti paesi che differenze hai trovato?

Negli Usa si lavora come in fabbrica o in ufficio, professionalmente, ma ad orario. Questo coinvolge molto di meno nel film chi li scrive o chi li realizza in altre parole si trova più distante da quel film. Quando ho lavorato in Italia ho trovato molta allegria sul set e la prima volta è accaduto con Per favore non mordermi sul collo  e poi con Che? Quando sono tornato per girare da attore Una pura formalità  le cose erano cambiate e non si respirava più la stessa aria di prima.

 

Con il passare degli anni guardi alle cose con le stesse angosce e gli stessi dubbi di prima?

Oggi mi sento più a mio agio e ho bisogno di sfide ed è per questo che ho girato Oliver Twist. In quel caso ho dovuto ricostruire un’epoca storica e quindi avevo trovato il mio motivo di interesse. Ho bisogno di avere qualcosa di difficile da realizzare per essere soddisfatto.

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