Tornare a vincere, di Gavin O’Connor

Sotto le dinamiche consuete del dramma sportivo, emergono le ossessioni di O’Connor. Qualcosa non funziona, ma Ben Affleck apre il cuore profondo del film. Disponibile in vod

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Jack Cunningham è una vecchia promessa del basket liceale, che però ha messo da parte il suo talento e ha imboccato una strada di autodistruzione, tra spettri di sconfitta, vecchi conflitti familiari non risolti e tragedie personali laceranti. Si guadagna da vivere come operaio nei cantieri, ma non gli frega più nulla, se non forse degli ultimi legami che gli rimangono, in particolare con il nipote, figlio della sorella. Per il resto, l’unica cosa che lo fa andare avanti è l’alcool, litri e litri di birra buttati giù in continuazione, a lavoro e a casa, di giorno e di notte. Finché, un giorno, gli viene offerto di allenare la squadra dei Bishop Hayes, la formazione della scuola cattolica di cui era stata la stella anni fa. Con estrema riluttanza, accetta e a poco a poco comincia a sentire di nuovo il richiamo della competizione, ad affezionarsi ai ragazzi e a mettere in campo le sue conoscenze tecniche e la sua visione di gioco.

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La classica vicenda di riscatto sportivo, si direbbe. Ma le dinamiche consuete da sport drama sono solo la cornice di The Way Back, entro cui si agitano da una parte, tutte le ferite di Ben Affleck, delle sue derive nell’alcolismo, e, dall’altra, le ossessioni del cinema di O’Connor, sempre risucchiato nei gorghi familiari, teso al disegno di personaggi oscurati dalla rabbia e dal dolore. Ed è questa l’anima profonda di un film all’apparenza minuscolo: motivi che, in qualche modo, mandano in palla proprio gli stereotipi del genere, mettendo “fuori gioco” la fascinazione della sfida e le questioni agonistiche. In effetti, in tempi di mirabolanti ultime danze che flirtano con il gangster movie, tra un Isiah Thomas vestito alla James Cagney e Michael Jordan che sconta his airness in una solitudine tragica alla Mike Corleone, ciò che salta agli occhi, prima di tutto, è il fatto che Gavin O’Connor non sappia e non voglia raccontare le fibrillazioni del basketball court. Liquida le partite in poche scene, riprese quasi dalla distanza di sicurezza di un commentatore sugli spalti, in brevissimi cenni di schemi, che rimangono più sulle carte del coach che nell’evidenza concreta dell’immagine. Mentre tutta l’azione passa e si sedimenta quasi attraverso il filtro di Cunningham, la sua personalità bloccata e muta, che emerge qua e là in un eccesso di reazione, in quei fiotti di volgarità che tanto fanno arrabbiare il consigliere spirituale della squadra. Il conflitto, dunque, non riguarda mai davvero l’altro, che sia un avversario, qualche ragazzo ingestibile o un padre che non vuole che il figlio si perda dietro illusioni vane. Non riguarda neanche l’ex moglie di Jack, segno presente di una spina nel cuore troppo profonda. Il conflitto è tutto interno al protagonista e, semmai dopo, si allarga a un mondo che fatica ad ammettere debolezze ed eccezioni, che pretende una dirittura morale senza curarsi di tutti quei moti interiori e di quelle esperienze che sono la radice e la sostanza di ogni morale.

Sì, per questa strada O’Connor si tiene alla larga dalla tensione esaltante, da lasciar senza fiato, dei combattimenti di Warrior. Lì toccava davvero il vertiginoso abisso del suo cinema. Qui perde di vista le situazioni per star tutto dal lato della figura, per concentrare ogni peso proprio lì, tra le spalle e il collo del suo protagonista, che, a tratti, sembra poter deflagrare in una pura violenza rabbiosa proprio come accadeva al personaggio di Tom Hardy. Eppure c’è qualcosa che non funziona, o meglio che funziona troppo, che si perde nei meccanismi del plot, nel determinismo troppo marcato di alcune soluzioni della sceneggiatura di O’Connor o Brad Ingelsby, che hanno bisogno di trovare un senso alla solitudine “cosmica” del personaggio (e dell’interprete): l’aggancio una tragedia passata, di un lutto lacrimevole e, tutto sommato, inutile. È qualcosa che già accadeva in più punti di Pride and Glory e di The Accountant, un rovello di intelligenza e di mestiere, l’attrito di un granello che ingolfa il film, che nasconde la sincerità delle ossessioni sotto il velo delle pretese autoriali o delle esigenze spettacolari. Alla fine, chi rimette in moto la vertigine è solo Ben Affleck, con quel suo stare sempre a metà tra l’apatia più disperata e il ricordo di una passione sepolta, irresistibile. La cupezza batmaniana che cova sotto l’inespressività forzata è solo lo specchio scuro; oltre c’è la lucida consapevolezza di essere, quasi senza volere, una delle figure centrali del cinema americano degli ultimi vent’anni. Affleck davvero sembra non recitare più, non aver più voglia. Ma, inquadratura dopo inquadratura, scena dopo scena, mostra semplicemente di non averne più bisogno. Ha colmato tutta la distanza che separa la verità dell’intenzione e dell’ispirazione dalla tecnica della rappresentazione.

Titolo originale: The Way Back
Regia: Gavin O’Connor
Interpreti: 

Ben Affleck, Al Madrigal, Janina Gavankar, Michael Witkins, Glynn Turman, Brandon Wilson, Hayes MacArthur


Distribuzione: Warner Bros
Durata: 108′
Origine: USA, 2020

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.1 (10 voti)
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