Tra biopic e gangster movie: The Program, di Stephen Frears

Siamo nel “Tour de Lance”. La straordinarietà del film sta nella sua doppia anima: da un lato l’andatura costante da fedele biopic e dall’altro gli strappi improvvisi sui gustosi rimandi ai generi

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Il film è già in corsa, l’inizio è folgorante. Una voce fuori campo ci dice che su quella bicicletta pedalano la fame e i desideri di un sognatore, volato dall’altra parte del mondo a ri(n)tracciare le coordinate del vecchio american dream. Questa è la storia di Lance Armstrong, ovviamente, la storia del ragazzone texano accecato dal sogno di essere il “numero uno del ciclismo su strada”, che da giovane promessa (campione del mondo a soli 22 anni nel 1993) sconfigge un cancro e torna in gara più forte di prima. Un fenomeno. Sette Tour de France vinti consecutivamente, record assoluto, superiorità schiacciante, ma… l’amicizia imbarazzante con il discusso dottor Michele Ferrari e l’ombra del doping lo perseguiterà sempre, sino a schiacciarlo. Siamo proprio sicuri, però, che questo The Program sia solo un fedele biopic? Vediamo.

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Stephen Frears, si sa, gira ormai con collaudatissimo mestiere: mai un’inquadratura fuori posto, mai un momento di stanca, il film fila via come la corsa perfetta di Lance ai bei tempi (quelli dopati), con le discese in apnea incollati alle sue ruote, i pavè frastagliati che fanno battere i denti, le salite ansimanti e le maglie gialle che si susseguono frame by frame sulle note di una clamorosa colonna sonora pop-rock. Ecco, la straordinarietà del film sta proprio in questa sua doppia anima: da un lato l’andatura costante da fedelissimo biopic (nato da una rigorosa documentazione e da un ottimo montaggio di materiali d’archivio), e dall’altro gli strappi improvvisi sui gustosi rimandi al sistema dei generi hollywoodiani. Il film parte come un action anni ‘80 (la velocità, la fame, il desiderio, la vittoria a tutti i costi!), si trasforma in una crime story dalle venature horror (il dottor Ferrari ha le fattezze di un Nosferatu dei nostri giorni, vero vampiro del film che risucchia il discepolo Lance nel lato oscuro della scienza), fa “tappa” nel sottogenere dei film sul giornalismo di inchiesta (con tanto di reporter del Sunday Times dalla pakuliana etica incrollabile) e infine plana sul Gangster Movie più iconico (Armstrong è dipinto come uno scarface che scala il successo a tutti i costi e ottiene il suo sogno, “the world is yours”, ma in appena sette anni crolla il Mito e crolla l’impero). Insomma tutta l’impalcatura da biopic è istantaneamente adattata a una miriade di umori-di-genere che lo spettatore riconosce, cataloga e rimette in circolo con sommo piacere. Certo ci sono ovvie semplificazioni e forzature, certo sarebbe assurdo pensare che i “fatti” si siano susseguiti con così perfetta consequenzialità… ma qui siamo dalle parti di un ottimo film di intrattenimento, signori, cosa vogliamo di più?

2Programmati insieme a Lance, poi, sono gli stessi media. Le telecamere onnipresenti e la Tv-come-vita, i titoloni dei giornali in sovrimpressione e l’ossessione per la pubblicità, il sogno del cinema (“chi ti interpreterà? Matt Damon o Jake Gyllenhaal?”) e infine il continuo riferirsi a un pubblico che lo ascolta. Il Tour de France, allora, diventa il Tour de Lance nella mitologia popolare: la favola dell’atleta che sconfigge il cancro e diviene invincibile, potente e amico di tutte le star. Insomma un “eroe”. Le sue evidentissime bugie (“negare! Negare sempre!”) devono restare nell’ombra, pertanto, perché a tutti conviene così, perché lo show deve continuare. Nulla di originale, ovvio, ma qui c’è sempre l’intelligenza di piegare ogni riflessione al puro piacere del racconto utilizzando dicotomie lessicali sempre chiare e fruibili: “era un ciclista normale, dopo il tumore sembra Superman! Com’è possibile?”.

3Siamo in pieno Tour de Lance, dicevamo: dalla terribile malattia al fatale incontro con Ferrari; dal programma per raggiungere la prestazione perfetta alle milionarie donazioni per la ricerca sul cancro; dall’EPO in siringa che produce “il volo” verso sovrumane vittorie al virus morale che contagia gli altri giovani discepoli (straordinario il personaggio di Floyd Landis, pennellato in poche sequenze dai boschi sperduti della Pennsylvania sino alla Francia dei record)… tutto frullato insieme in un ritmo scorsesiano da goodfellas sportivo dopato al punto giusto. Sino alla fatale discesa. Sì perché è proprio quando il suo mondo immaginario crolla con enorme fragore che l’incredibile interpretazione di Ben Foster fa intravedere tutto il dolore represso di un personaggio spietato ma tragico. Un vuoto emotivo non più colmabile con le salite da scalare o le maglie gialle da indossare, un vuoto tutto contemporaneo che ora tocca a noi spettatori riempiere di pensiero: “io gli dico solo quello che vogliono sentirsi dire. Nulla di più”. Almeno su questo, Lance, non ha detto una bugia.

Titolo originale: id.

Regia: Stephen Frears

Interpreti: Ben Foster, Chris O’Dowd, Dustin Hoffman, Lee Psce, Jesse Plemons

Distribuzione: Videa

Durata: 103′

Origine: Gran Bretagna 2015

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