Tra spettacolo e gaming: l’Arabia Saudita guarda in Occidente
Dal Riyhad Comedy Festival al prossimo Westlemania le politiche dell’Arabia Saudita “rubano” sempre di più dalla cultura americana con l’accusa di whitewashing e appropriazione di “miti” occidentali
Tra le infinite forme di spettacolo – esito di un costume che nasce tra fiere e cabaret per superarli e diffondersi in ogni anfratto del quotidiano – due simboli della cultura americana perdono un po’ del loro “vigore a stelle e strisce” per spostarsi in Arabia Saudita.
Non era mai successo in maniera così massiccia che il mondo della stand-up comedy e del wrestling si spostassero oltre oceano; almeno fino allo scorso 26 settembre, data di inizio del Riyhad Comedy Festival, che ospita pezzi grossi come Aziz Ansari, Hannibal Buress, Bill Burr, Jimmy Carr, Dave Chappelle, Pete Davidson, Maz Jobrani, Sam Morril, Mark Normand, Nimesh Patel e Tom Segura.
L’arte della sfacciata libertà di parola in scena nel teatro tra i più conservatori e severamente censori al mondo, quello Saudita. E a un primo sguardo curioso e ottimista sembrerebbe una nuova sfida, il primo dei nuovi orizzonti per gli show occidentali. Non fosse altro che la stand-up, per sua stessa natura, è retorica sfrontata, inevitabilmente sgarbata, senza filtri o quarte pareti a separare la crudezza del comedian dal suo pubblico.
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Allora viene da chiedersi come se la saranno cavata in quel di Riyhad, figure come Bill Burr e Jimmy Car che sulle perfide punchline hanno costruito, passo dopo passo, la loro gloria. E se Dave Chappelle ha la nomea del comico politicamente controverso, diverso è il discorso per Aziz Ansari, per cui sembrano lontani i tempi dell’autoironia sulle radici indiane e la morale progressista in Master of None.
L’Arabia Saudita e i comedian: una sinergia che lascia più di qualche strascico sui suoi (veri) moventi. Asprissima l’accusa di Human Rights Watch verso il governo saudita, che starebbe “utilizzando il Riyadh Comedy Festival 2025 per distogliere l’attenzione dalla brutale repressione della libertà di parola e da altre diffuse violazioni dei diritti umani”.
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Anche la BBC ha seguito il caso in un lungo approfondimento, scovando un post X della comica americana Atsuko Okatsuka – inizialmente invitata al festival – che diffondeva il passaggio di un contratto dove si vietava qualsiasi materiale o espressione offensivi o diffamatori verso la famiglia reale saudita o la religione.
Si sta scrivendo tanto in questi giorni sulla nuova stand-up saudita – è il whitewashing l’accusa più diffusa verso il governo – ma la verità è che se per la giornalista dell’Observer Rachael Healy è improbabile che i comici si azzarderanno a dire qualcosa che in Arabia Saudita possa apparire ambiguo, sarà altrettanto complicato scoprirlo vista l’incurvabile censura dei governanti.
Sono solo discussioni e presagi per ora, ma le notizie che circolano sembrano tutte muoversi in direzione di forme e costumi “occidentalizzanti” fra i paesi Arabi. L’ultimo dei casi è proprio l’accordo tra la WWE e l´Arabia Saudita per lo svolgimento di Wrestlemania 43 a Riyhad nel 2027.
Stando alle parole dell’analista Dave Meltzer, l’intesa sarebbe stata fortemente voluta sia da Turki Al-Sheikh (presidente dell´Autorità Generale per l´Intrattenimento Saudita) che dagli Stati Uniti, per avere Wrestlemania proprio nel 300° anniversario della fondazione del primo stato saudita. PWInsider, dal canto suo, accenna a un accordo “strabiliante” tra le parti, anche se le cifre non sono rese note.
Aldilà di ogni braccio di ferro economico, però, è lampante la rottura culturale di Wrestlemania dalle sue storiche e accese atmosfere nordamericane, con il pubblico affamato di corpi e gesta muscolari che è sempre stato il grande attore dell’evento.
L’Arabia Saudita guarda indubbiamente all’Occidente. Lo ha già fatto nello sport – vedasi il calciomercato monstre inaugurato dall’acquisto di Cristiano Ronaldo nel gennaio 2023 – e prosegue la sua campagna con la stand-up, il wrestling, e infine il gaming.
“Scoppia la polemica in Ubisoft” titola Everyeye rispetto all’annuncio del DCL gratuito Valley of Memory per Assassin’s Creed Mirage. Il supporto all’estensione del franchise da parte del fondo Saudita Public Investment Fund (PIF), presieduto dal principe Mohammed bin Salman, ha destato le furie dei dipendenti Ubisoft, allarmati dalle implicazioni etiche della partnership. Eppure la trovata di arricchire uno degli Assassin’s Creed forse più “minimali” della serie avrebbe anche i suoi perché, non fosse per l’immagine aziendale di Ubisoft.
Certo, non è un mistero la crisi del colosso del gaming e il suo crollo in borsa (il valore delle azioni è crollato dell’87%), tanto che l’etica dalle parti di Ubisoft sembra lasciare il posto agli affari. A essere ormai assodate, per ora, sono le politiche del mondo arabo fatte di accordi dal progresso epidermico che si fanno belli agli occhi dell’Occidente in vista di un eterno spettacolo affabulatore.





















