Trenque Lauquen, di Laura Citarella

Una vertiginosa forma di narrazione che, borgesianamente, non trova un centro, utilizzando l’accumulazione di prospettive del racconto. Orizzonti

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Per chi abbia avuto la possibilità di vedere La flor al Festival di Torino del 2018, il fluviale e articolato film di Mariano Llinás, preceduto molti anni prima dal già notevole Historia extraordinaria (TFF 2008), Trenque Lauquen nelle sue due parti, diretto da Laura Citarella (coregia di La mujer de los perros, 2015) che è anche la fondatrice con Mariano Llinás della casa di produzione El Pampero Cine, non costituisce una novità, restando tra i film migliori, più coraggiosi e formalmente interessanti della 79° Mostra del Cinema di Venezia. Un’opera complessa, questo film, che contribuisce ad arricchire un panorama un po’ scarno di sperimentazioni visive e narrative, dimostrando, ancora una volta, le potenzialità inesplorate del mezzo cinematografico troppo spesso utilizzato in funzione di mera registrazione di una realtà visibile, trascurando quell’invisibile che, invece, sarebbe proprio compito del cinema indagare.
Trenque Lauquen, che è il nome della città nella quale si svolge la vicenda, è un nuovo capitolo del progetto che appartiene ai due registi e che sembra aprirsi ad una fisionomia quasi definitiva assumendo le vere forme di un work in progress nel quale, attraverso il cinema, si sperimentano e si approfondiscono le teoriche del racconto, le forme dell’accumulazione narrativa, le stesse strutture narrative, labirintiche, arricchite da una incessante superfetazione di derive e di continui spin off. Una prospettiva di contenuto e di sguardo che conferma le parole della regista con le quali definisce i libri come mappe cartografiche per vivere. Se La flor costituiva, dunque, un catalogo delle forme narrative che possono diventare sperimentazione nei diversi generi, Trenque Lauquen, soprattutto nella sua prima parte, ci propone una vertiginosa forma di narrazione che, borgesianamente, non trova un proprio centro, utilizzando a sua volta, in quella accumulazione di prospettive del racconto, la traccia narrativa offerta da vari testi letterari in una girandola di titoli e di piste che servono a dare forma alla storia di Laura.

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È lei, Laura (Laura Paredes, peraltro moglie di Llinás) il personaggio principale del film e la storia comincia con la sua scomparsa e finisce, in quel labirinto architettato da una sceneggiatura articolata e mutevole, con la narrazione, da parte dello stesso personaggio, delle ragioni che l’hanno indotta a sparire dalla scena.
Se esiste un ostacolo per la piena consacrazione di Trenque Lauquen, come l’opera in assoluto più interessante passata sugli schermi di Venezia 79, è quello di un evidente, quanto inatteso squilibrio tra la prima e la seconda parte del film. La teorizzazione narrativa, seguita da una pratica fattiva del racconto, come forma dell’affabulazione infinita e autogenerante della prima parte, sembra doversi piegare ad una necessità del racconto più tradizionale in quella seconda più convenzionalmente adatta ad una specie di noir dell’anima in cui la complessità della parte precedente, cerca e trova soluzioni narrative più adatte ad un racconto classico. Ma è pur vero che in questa seconda parte, sembrano accentuarsi i temi di un fantastico quasi casalingo, i temi di una visionaria consistenza dei personaggi e delle situazioni. Un racconto che si annoda all’incipit, apparentemente quasi trascurabile dal punto di vista dello sviluppo della vicenda, ma che si enfatizza nel suo svolgersi, in una infinita gamma di detour narrativi che, calvinianamente, fondano una teorica vivente del racconto e una possibile rinnovata ripetizione di quel testo narrativo fatto di inesauribili scatole cinesi senza centro e senza univoca direzione che è l’ottocentesco e precursore Manoscritto trovato a Saragozza.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
3 (4 voti)
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