TRIESTE FILM FESTIVAL 19 – "Import, Export", di Ulrich Seidl (Concorso)

Cinema che porta su di sé tutto il dolore di un mondo, occhio lucido e commosso che inesorabile segue le sagome attonite di un'umanità persa. Due storie parallele di solitudini dall'Est, disperata ricerca umana di vite diverse e luoghi nuovi.

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Film girato con un'asciuttezza realista assolutamente sconvolgente, ferreo rigore formale, una sincerità di rappresentazione piena di pietà e dolore. Due storie parallele di solitudini dall'Est, giovani vite inermi schiacciate dal mondo, disperata ricerca umana di vite diverse e luoghi nuovi. Protagonisti che spezzano il film in due senza mai incrociarsi, eppure occupando uno spazio comune, compiendo uno stesso spostamento incrociato. Olga fa l'infermiera in Ucraina, viene licenziata, scappa, finisce in Austria come donna delle pulizie in un ospedale geriatrico; Paul è austriaco, sempre al verde, il patrigno lo porta con sè in Ucraina ad installare vecchie macchinette di videopoker. Fughe senza speranza, movimenti solo apparenti, immobili traiettorie esistenziali: Seidl nega ai suoi corpi ogni dinamismo, inibisce lo slancio del viaggio pietrificandolo in assoluta fissità, avvolge i paesaggi in un'identica coltre di miseria e grigiore. Come a dire che di qua o di là da Budapest la storia non cambia: stessa disperazione, la stessa squallida realtà ed una solitudine che il regista tedesco inscrive nelle sue lente e statiche inquadrature con una forza ed una precisione agghiaccianti, ritagliando i volti dallo sfondo e dilatando spietatamente i tempi di sequenze che non concendono tregue, inchiodando ad un'agonia dilagante ed universale. Cinema che porta su di sè tutto il dolore di un mondo, occhio lucido e commosso che inesorabile segue le sagome attonite di un'umanità persa: corpi che sembrano concedersi rassegnati alla macchina da presa, ad uno sguardo solidale e gelido che restituisce integralmente la loro sofferenza ed il loro tragitto senza colore.

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