Trieste Film Festival 20 – Convegno: Roll away the reel world: James Joyce e il cinema (prima parte)

John Mc Court

Nell’ambito del Trieste Film Festival, un convegno di spessore, curato dalla Trieste Joyce School dell’Università di Trieste istituto diretto da John Mc Court, ha indagato sui rapporti tra la lezione dello scrittore irlandese e il cinema.

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La permanenza di James Joyce a Trieste (1904-1915), dove si trasferì per insegnare alla Berlitz School, ha costituito oggetto di studio per comprendere quanto questa città abbia influito sulle opere successive. Di recente, John Mc Court, arguto intellettuale irlandese, studioso di Joyce, ha pubblicato un libro per i tipi di Mondadori James Joyce, Gli anni di Bloom, in cui dimostra come e quanto quegli anni trascorsi a Trieste si siano rivelati determinanti per l’ evoluzione di scrittore. Si dà il caso che John Mc Court sia anche il direttore oltre che cofondatore della Trieste Joyce School dell’Università di Trieste, oltre ad avere pubblicato oltre quaranta articoli sullo scrittore irlandese ed esserne uno dei maggiori studiosi.

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L’istituto che dirige, in collaborazione con Alpe Adria, ha dato vita nell’ambito del Trieste Film Festival al Convegno Internazionale di Studi “Roll away the reel world: James Joyce e il cinema”, preziosa occasione per indagare i rapporti tra Joyce e il cinema, tra la sua letteratura e l’arte cinematografica che in quegli anni aveva il sapore dell’invenzione straordinaria e magnetizzava con le immagini in movimento l’attenzione della gente semplice, ma anche degli intellettuali. E tra questi Joyce ne fu affascinato e catturato.

Nei due giorni del convegno sono stati approfonditi vari profili di questo legame, che oggi ci appare indissolubile, e le molteplici modalità attraverso le quali la scrittura joyciana ha sviluppato il dinamico rapporto, da sempre esistente, tra le due espressioni artistiche.

Lo spunto per la celebrazione del centenario nasce dal fallimento di un progetto: nel 1909 James Joyce, coinvolgendo alcuni amici e imprenditori triestini, aprì un cinema a Dublino occupandosi personalmente della logistica e dell’avvio dell’iniziativa. La vita del cinema Volta, così si chiamava, ebbe breve durata e l’attività fu venduta, gli imprenditori persero gran parte dell’investimento e Joyce non ricavò alcunché.

L’episodio, documentato dall’interessante mostra collaterale curata da Erik Schneider, serve per aprire un capitolo nel quale si ritrovano interessanti addentellati tra l’universo letterario joyciano e il cinema.

Un evidente esempio di questo stretto rapporto lo si ritrova nell’episodio Circe dell’Ulisse. Un episodio nel quale Bloom, il protagonista e Stephen, si ritrovano nel bordello di Bella Cohen e la scrittura di Joyce da vita ad una sarabanda di travestimenti dei due personaggi a simboleggiare lo stato confusionale in cui si trovavano. Quello del travestimento è stato una delle strutture portanti nel cinema delle origini in cui si utilizzava il travestimento dei personaggi come modalità espressiva nelle gag che costituivano i primi tentativi del cinema comico. I filmati, che hanno accompagnato le relazioni di Philip Sicker (Fordham University) e di Marco Camerani (Università di Bologna), dimostrano, infatti, quanto le immagini di Melies e degli altri cineasti dei primi del secolo abbiano avuto un’influenza decisiva sull’opera di Joyce.

Altre correlazioni, meno strutturate e più episodiche, costellano la possibilità, sempre più concreta, di accostare le costruzioni dello scrittore alle immagini che sicuramente egli ebbe la possibilità di vedere nella Trieste dell’epoca che contava ben 23 sale cinematografiche. La relazione di Katy Mullin (Leeds University) è stata centrata proprio su queste assonanze tra la scrittura e le immagini che l’esordiente cinema catturava dal quotidiano. Colpisce, ad esempio, nell’episodio sulla spiaggia, tredicesimo capitolo dell’Ulisse durante il quale Bloom guarda le pose provocanti di Gerty Mc Dowell, la forte e non casuale assonanza con As seen through a telescope di G.A. Smith del 1900 nel quale, con l’identica forza voyeuristica dell’episodio del romanzo, un uomo guarda la caviglia scoperta di una donna attraverso il suo telescopio, oppure in The gay shoe clerk di T. A. Edison del 1903 nel quale un commesso di un negozio di calzature è sedotto dalla nudità della caviglia della cliente. Le osservazioni che pongono questo connaturato rapporto tra l’espressione letteraria e le prime immagini in movimento, confermano la tesi di partenza e permettono di strutturare lo studio del corpus joyciano in un parallelo e contemporaneo approfondimento dei canoni visivi del cinema delle origini. Il cinema nei primi anni della sua esistenza, infatti, ha sfruttato il quotidiano come oggetto di narrazione. Esiste una grande quantità di cinema che, nelle forme brevi proprie degli anni ‘10 e ‘20, utilizzava la banale e consueta quotidianità come oggetto di rappresentazione. Era un cinema che inconsapevolmente diventa oggi documento avendo storicizzato quel presente. La relazione della Mullin conferma che su questo impianto naturalistico, se si vuole, ma profondamente connaturato ad uno dei profili più comuni delle immagini, si ritrova un ulteriore coincidenza con le elaborazioni letterarie dello scrittore irlandese, che fondano la propria moderna epica sulla epifania del quotidiano. Joyce non traduce le immagini in parole, ma con uno sforzo evidente, cattura, all’interno delle proprie costruzioni letterarie, l’essenza delle immagini attraverso l’utilizzo di stili letterari variegati e compositi. Cosicché il cinema diventa ancora una volta strumento di essenziale sinteticità per scardinare l’ordinaria quotidianità narrativa, attraverso, invece, una acquisizione dell’oggetto (anzi del gesto) quotidiano per farne azione epica dell’uomo moderno che costituisce il correlativo processo di scrittura utilizzato da Joyce.

 

 

 

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