Trieste Film Festival 20 – Convegno: Roll away the reel world: James Joyce e il cinema (seconda parte)

L’indagine sull’influenza che le opere di Joyce hanno avuto sul cinema e viceversa ci fa riscoprire quanto queste siano sedimentate nella cinematografia contemporanea che attraverso i suoi autori più audaci ha scardinato le vecchie ortodossie così come aveva fatto nella letteratura lo scrittore irlandese.

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Il convegno Internazionali di studi “Roll away the reel world: James Joyce e il cinema” dedicato dal Trieste Film Festival e organizzata in collaborazione con la Trieste Joyce School dell’Università di Trieste ha offerto, tra le altre, l’ipotesi suggestiva e piacevole illustrata Jesse Meyers (libero docente a New York) il quale si è soffermato sulle molteplici e non casuali citazioni o vere e proprie estrapolazioni che dal romanzo e dai personaggi dello scrittore irlandese, si sono riversate nel cinema dei giorni nostri. Occasioni nelle quali il cinema attinge, più o meno inconsapevolmente, all’universo joyciano che ne dimostrano la sedimentazione nella cultura occidentale. In questo senso Joyce diventa uno sceneggiatore contemporaneo che ha insegnato una nuova e ineluttabile modalità del visibile, laddove il cinema ha mutuato proprio da quella prosa il montaggio che conferisce al cinema la sua essenziale qualità ed è proprio in Joyce, dice Meyers, che si possono ritrovare tutte le forme del cinema fino alla dissolvenza in nero.
Non vi è dubbio, quindi, che la luce gettata da Joyce sulla moderna forma espressiva, comprendendo in quest’ambito il cinema, sia decisiva. Ogni linguaggio ne è rimasto influenzato e ha mutato la propria strutturazione grazie alla rivoluzione operata, proprio dall’interno delle sue coordinate fondamentali, a partire da Joyce. Non possiamo non essere pertanto d’accordo con Louis Armand (Charles University di Praga) che nella sua relazione ha
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sapientemente illustrato il rapporto tra il cinema di Godard e la scrittura di Joyce. Le fratture narrative, la sincopata forma espressiva, le reiterazioni visivo-letterarie appartengono a questa osmosi che ha trasferito queste, ormai acquisite, forme espressive dal genio di Joyce a quello di Godard. Non a caso il maggiore teorico del montaggio Sergej Eseinstein ha utilizzato le pratiche letterarie di Joyce per teorizzare i canoni del montaggio. Ma nel cinema dei giorni nostri è stato proprio Jean Luc Godard che più di ogni altro si è servito della lezione dell’autore per trasformare il cinema distruggendo qualsiasi vecchia ortodossia in un processo molto simile a quello operato da Joyce con il romanzo. Godard ha utilizzato l’immagine come modalità del pensiero – insiste lo studioso praghese – inserendo nel proprio cinema quella molteplicità polisemica che è anche propria della scrittura joyciana. In questo senso per Jean Luc Godard il montaggio esprime quel segno di un intervallo dinamico che da luogo al discorso, si tratta di strutture magari spezzate e nelle quali si inseriscono le metonimie proprie del dialogo. Le medesime strutture che in letteratura utilizza Joyce. È per questa ragione, sottolinea Armand, che emerge il valore tecnologico che la parola aveva per Joyce, così come l’immagine per Godard. Cosicché il cinema, appresa la lezione godardiana, diventa un’estensione della lingua e il montaggio, nella sua complessiva accezione diventa montaggio storico che contribuisce a creare quel museo del reale con un sempre evidente e costante margine di indefinibilità. In altre parole, se si vuole, Joyce e Godard, ciascuno nel linguaggio loro congeniale, hanno contribuito in modo determinante a creare quel vernacolo moderno che conosciamo, al quale ci siamo abituati sia attraverso le strutture joyciane, sia attraverso le immagini godardiane che ci hanno insegnato, ancora una volta che quando si parla di regia, necessariamente si parla di montaggio.
Attraverso la lettura joyciana di Viaggio in Italia si dipana l’intervento di Kevin Barry (N.U.I. Galway) il quale evidenziando le ombre narrative create da Rossellini e Brancati per celare la derivazione del suo film dal racconto I morti,che chiude The dubliners, propone una lettura del cinema di Rossellini attraverso i temi joyciani. Nel film vari sono gli indizi che rimandano a quest’operazione di occultamento che Rossellini realizza: i coniugi si chiamano Joyce e durante il film vanno a trovare lo zio Omero. Ma sicuramente è lo svelamento dell’amore precedente di Cathy che viene confessato ad Alex mentre la coppia prende il sole in villa davanti al Golfo di Napoli che diventa il nucleo centrale del film e la sua ragion d’essere. Qui i due autori della sceneggiatura mantengono del tutto integro, rispettandolo, il racconto dal quale il film prende le mosse trasformandolo in tema per un cinema in cui nulla sembra muoversi. È proprio a questo proposito che Kevin Barry definisce il cinema di Rossellini come il cinema del non evento, sottolineando lo stretto legame con la letteratura joyciana che fonda la propria esistenza sulla forma e sulla parola, piuttosto che sull’evento. È proprio su questa linea di confine che va letta la differenza tra la bella riduzione cinematografica del racconto I morti che ne fa Huston il quale, nel rispetto del narrato, costruisce una storia non joyciana nella struttura, ma molto personale (la dedica del film è alla sua cameriera messicana clandestina) e quella di Rossellini che, invece, decostruisce il racconto, con un’operazione joyciana, allontanandosi dal testo, dimostrando che il testo dell’opera è utilizzabile prescindendo dalla cultura di derivazione e costruendo il cinema del non evento che molto, forse, sarebbe piaciuto a James Joyce.
Resta opinione condivisa che comunque, lo scambio biunivoco e interdisciplinare tra la scrittura joyciana influenzata dal cinema e quest’ultimo che ha attinto dalla lezione dello scrittore, non si manifesta in modo così lineare laddove la lingua di Joyce vuole essere tradotta in immagini. Un piccolo mistero che permane per un linguaggio così immaginifico che dovrebbe invece trovare proprio nelle immagini la sua naturale destinazione.
 
 
 
 
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